10 NOVEMBRE 2024 – Luciano Di Tizio, già componente della redazione de “Il Tempo” di Chieti, presenta in questi giorni il suo “La giustizia del Duce”, con il quale si impegna a descrivere le nefandezze dell’epoca buia del fascismo, con le violenze, lo strano processo, svolto proprio a Chieti, per l’omicidio di Giacomo Matteotti.
Quando un giornalista si siede sulla cattedra dello storico deve rivedere molte delle impostazioni che vanno seguite nel raccontare la cronaca: per fare i quotidiani, al primo posto bisogna assecondare l’esigenza di dare una versione in poche ore. Se scrive dopo cento anni dagli avvenimenti, lo storico dovrebbe innanzitutto evitare titoli come “La giustizia del Duce”. Non fu solo l’apparato fascista ad accogliere Gaetano Azzariti per metterlo al vertice della “Commissione della razza” (nel 1938, anno nel quale Mussolini strologò sulla superiorità della razza italiana a Trieste), perché fu la Repubblica ad accogliere lo stesso giudice e a collocarlo non a capo del tribunale dell’Aquila o alla pretura di Piana degli Albanesi, ma quale presidente della Corte Costituzionale, il primo in assoluto, quello che avrebbe dovuto presiedere la prima riunione con Giuseppe Capograssi, che morì nel 1956, poco tempo prima che si tenesse la prima udienza a Palazzo della Consulta. Quindi, molto più semplicemente, Di Tizio avrebbe dovuto titolare “La giustizia degli uomini”, perché questo è l’esempio classico che può convincere che quasi sempre le scelte di campo in un regime non impediscono di essere ai vertici anche nelle forme di Stato che si prefiggono obiettivi diversi dalla dittatura, dalla violenza, e da tutto quello che il Di Tizio mette in copertina.
Ma, senza aspirare a livelli così alti, prima di essere storici bisognerebbe essere almeno buoni testimoni. E qui sia consentito di dubitare della prontezza di spirito e della valutazione storica di Luciano Di Tizio, che, quando fu chiamato, come testimone dell’azienda, a riferire come, fino all’anno 1993, si organizzasse il lavoro di redazione de “Il Tempo” in Abruzzo, sostenne che articoli e fotografie dalla redazione di Sulmona venivano inviati a quella di Pescara, dove erano formate le pagine (composti i “menabò”). Disse cose opposte a quelle che sostennero, per averle viste dal vero alla redazione di Sulmona, testimoni della portata del dott. Venanzio Porziella, sveglio e acuto quanti altri mai, oppure l’indimenticabile Sebastiano Marini, reporter di prima linea e diversi altri, compresi i segretari di redazione di Piazza Colonna. Insomma, quella di Luciano Di Tizio fu una voce isolata, che forse per questo, dopo tanti anni, si vuole unire al coro di quanti dicono che il male assoluto della giustizia italiana fu tutto nel periodo fascista, quando è agli uomini che bisogna guardare e non ai sistemi.
Confondi episodi di qualche anno prima e vuoi scrivere da storico per casi di cento anni prima? Qual è il sistema di verifica? Se ti vuoi limitare a fare il presidente regionale del WWF, va bene, ma se ti avventuri storico, abbassa la cresta.
Altrimenti, si compie lo stesso svarione (per non dire di peggio), che viene confermato ogni volta che gli storici di sinistra della Valle Peligna parlano di persone proposte come ferventi antifascisti, come un avvocato di Pratola che chiese la tessera del partito nazionalfascista (usiamo le minuscole per non dare adito a sempre facili accuse di apologia, mentre seguiteremo sempre a scrivere Medaglia d’Oro al Valor Militare Junio Valerio Borghese) e che era vice-direttore del campo di prigionia di Fonte d’Amore prima che arrivassero gli alleati ad aprire i cancelli. Oppure si osanna come eroico capo partigiano chi, per stessa sua ammissione, rimase in una cantina a Sulmona fino a quando non arrivarono in città gli anglo-americani e dette addirittura della “spia fascista” ad una persona per bene solo perché nel frattempo era morta (e non sapeva che in Germania c’era il figlio che, appena letta la versione, lo denunciò e lo fece condannare per diffamazione fino alla Corte di Cassazione).
Per quanto ci riguarda, conservandoci giornalisti, ogni volta che qualcuno si alza per esporre il succo delle proprie pensose ricostruzioni, abbiamo il diritto di verificare il pulpito.