Amores

1845

Noi che testè eravamo di Ovidio cinque libri

siamo tre; questa forma, non l’altra, amò l’autore.

Supponendo che leggerci non ti piaccia per nulla,

aboliti due libri, ti annoierai di meno. (Epigramma)

Qual è mai la ragione per cui il letto mi sembra così duro

E ferme al loro posto non stanno le coperte

E perchè senza sonno ho trascorso una così lunga notte

Di rivoltarmi stanco, dolente nelle ossa?

Lo sentirei, io credo, se da un amore fossi messo a prova.

O con arti nascoste s’insinua, astuto, e nuoce?

Sarà così. Sottili frecce sono nascoste nel mio cuore,

sono suo e in me s’aggira ferocemente Amore.

Cederò o resistendo attizzerò quell’improvviso fuoco?

Meglio cedere, è lieve, se bilanciato, il peso.

Fiamme agitate al moto di una torcia accrescersi io vidi

E poi morire invece, se nessuno le scuote,

e ricevono colpi più di quelli che accettano l’aratro,

i buoi che si ribellano, costretti al primo giogo.

Duro dente lupato rompe la bocca al cavallo bizzoso,

quello avvezzo agli arnesi sente di meno il peso.

Più acerbamente e molto più crudelmente i riluttanti opprime

Che non chi riconosce di essere schiavo, Amore.

Ecco, io lo confesso: sono, Cupido, la tua nuova preda.

Porgo le mani, arreso, alle tue condizioni.

Non serve più la guerra, chiedo accoglienza e pace. Da me vinto

E inerme gloria alcuna non verrà alle tue armi.

Col mirto nelle chiome, aggioga le colombe di tua madre,

un carro a te adeguato ti darà il tuo patrigno,

e in quel carro starai, mentre il popolo acclama il tuo trionfo

abilmente guidando le aggiogate colombe.

Giovani prigionieri, fanciulle prigioniere sfileranno

E sarà il tuo trionfo tale sfarzosa pompa.

Io stesso, nuova preda, oltre a quella ferita che m’hai inferta,

sentirò il nuovo assillo nell’anima asservita.

Sfilerà con le mani legate dietro il dorso la Ragione

E il Pudore e quanto i tuoi castri minaccia.

E di te avrà paura ogni cosa e tenendoti le braccia

Canterà il volgo ad alta voce “Io triumphe”.

Ti saranno compagne la Lusinga, l’Errore e la Follia

Che inseparabilmente seguono le tue insegne.

Con tale tua milizia vinci uomini e dèi, ma semmai

Tale aiuto ti venga meno, sarai nudo.

Lieta del tuo trionfo da olimpiche altitudini tua madre

Approverà coprendoti delle rose che ha accanto,

tra le ali e i capelli le gemme accenderanno alti bagliori

e aureo avanzerai sulle ruote dorate.

Anche allora non pochi infiammando, se bene ti conosco,

molte ancora passando infliggerai ferite.

Non possono, seppure tu volessi, cessare le tue frecce,

ardente fiamma brucia emettendo calore.

Tale era Bacco quando ebbe domata la terra del Gange,

il suo peso subivano le tigri, il tuo gli uccelli.

E poiché posso anch’io aver parte nel sacro tuo trionfo

Con me non dissipare, hai vinto, il tuo potere.

Guarda le armi propizie di Cesare da cui discendi. Vince

Egli con quella mano con cui protegge i vinti. (I, 2)

Come è giusto io chiedo che la donna di cui sono ormai preda

Mi ami o faccia in modo che io sempre l’ami.

Ah, volli troppo. Basta per me solo che lei si lasci amare

E Citerea avrà accolto tutti i miei desideri.

Accettami, e io sempre tutto mi darò a te nei lunghi anni,

accettami, amarti saprò con pura fede.

Se non mi fanno onore i grandi nomi di antenati illustri

Se solo un cavaliere garante è del mio sangue,

né aratri innumerevoli servono all’aratura dei miei campi,

se ho genitori parchi, bene attenti alle spese,

ma Febo, le sue nove compagne e l’inventore della vite

sono dalla mia parte, e chi a te mi dona,

Amore, e fede quale mai altra, irreprensibili costumi,

nuda lealtà e il pudore che mi imporpora il volto.

Non voglio mille donne, né volteggio da questo a quell’amore,

sarai tu il mio costante pensiero, se mi credi.

Con te gli anni concessimi dalle sorelle vivere vorrei,

con te se tu piangessi la mia morte, morire.Offrimi una materia ai miei versi feconda e quei versi

Diventeranno degni di chi l’ispira. Hanno

Rinomanza dai versi Io spaventata al vedersi le corna

E colei che l’adultero fattosi cigno illuse

E quella che solcando il mare in groppa a un falso toro resse

Le corna divergenti con mano di fanciulla.

Anche noi in modo eguale saremo celebrati in tutto il mondo

E per sempre congiunto il tuo sarà al mio nome. (I, 3)

Ora che il mio furore tutto svanisce mettimi alle mani

Meritate catene se vuoi essermi amico.

Fu quel furore a muovere contro l’amata le insensate braccia

E piange la mia donna da folle mano offesa.

Sarei stato violento anche contro i diletti genitori

Oppure avrei colpito con forza i santi déi.

Non fu così che Aiace dal settemplice scudo fece a pezzi

Il bestiame sorpreso nelle vaste pianure?

Non osò Oreste, vindice del padre sulla madre, dardi chiedere,

tristo vendicatore, contro le arcane dee?

Come potei distruggerle la bella acconciatura dei capelli?

Ma neppure la chioma sconvolta la imbruttiva.

Anche così era bella, simile a lei direi che la Schenaide

Inseguisse con l’arco le menaliche fiere.

Tale era la Cretese dolentesi che l’impeto dei Noti

Le vele e le promesse di Teseo lo spergiuro

Portasse via. E Cassandra (ma i suoi capelli una benda reggeva)

Cadde a terra nel tuo tempio, casta Minerva.

Chi non avrebbe detto che ero un barbaro, un folle? Ma lei nulla,

spaventata, la lingua oppressa dal timore

esprimeva rimprovero il volto silenzioso, e tuttavia

anche senza parlare piangendo mi accusava.

Magari mi si fossero dissociate le braccia dalle spalle,

magari io di quelle fossi rimasto privo!

Contro di me ho speso dissennato vigore e la mia forza

Fu capace soltanto di punire me stesso.

Che ho a che fare con voi, ministre della strade e del delitto?

Offritevi, sacrileghe mani alle catene.

Se io avessi percosso tra i cittadini l’ultimo, sarei

Punito. E su di lei avrò maggior diritto?

Lasciò dei suoi misfatti il Tidide terribili memorie,

egli una dea per primo percosse, io fui il secondo.

Ma in lui meno di colpa, che fu crudele con una nemica.

Io ho colpito la donna che dicevo di amare.

Vai ora a celebrare da vincitore splendidi trionfi,

quindi, cinto di lauro, sciogli a Giove i voti

e ti acclami la turba che scortandoti seguirà il tuo carro

perchè ha vinto una donna il potente guerriero.

E, triste prigioniera, lei ti preceda con le chiome sciolte,

pallidissima tutta tranne le guance offese.

Meglio se avesse avuto lividi impressile dalle tue labbra

E sul collo le tracce dei tuoi morsi lascivi.

E infine anche se al modo di torrente in piena ero infuriato

E ormai preda dell’ira che accieca, non bastava

Forse con le mie urla aggredire la timida fanciulla

Troppo dure minacce contro di lei tuonando

O vergognosamente dall’orlo superiore lacerarle

La tunica fin dove la cintura l’avrebbe

Protetta? Io riuscii a strapparle perfino sulla fronte

I capelli, e a graffiarle, spietato, il dolce viso.

Ella rimase immobile, smarrita, senza sangue il bianco volto

Come marmo tagliato da giogaie di Paro,

vidi il suo corpo esanime, vidi tremare le sue membra come

allora che le chiome dei pioppi muove il vento

o vibra al dolce Zefiro una gracile canna o si corruga

al tepore di Noto l’onda alla superficie.

Lacrime trattenute a lungo si diffusero sul volto

Come l’acqua che cola dalla neve sul suolo.

A sentirmi colpevole io solamente allora cominciai,

sangue erano le lacrime che lei versava, il mio.

Infine avrei voluto ai suoi piedi gettarmi per tre volte,

tre volte lei respinse le temute mie mani.

E tu non esitare, giacchè a tale vendetta il tuo dolore

Diminuirà, a graffiarmi il volto con le unghie,

non risparmiarmi gli occhi non risparmiare neppure i capelli

perché l’ira dà forza anche a deboli mani

e affinché indegne tracce non restino del grave mio misfatto

rendi alle tue chiome la loro acconciatura. (I, 7)

Ti odierò, purchè possa, e ti amerò altrimenti, mio malgrado ( 3.11b, v.3)

Fuggo la tua perfidia; fuggiasco mi richiama la tua grazia ( 3.11b,v.5)

Non posso vivere sia con te che senza di te (3.11b, v. 7)

Eri invidiosa, veste che le coprivi gambe così belle (3.2,v.27)

E’ evidente, gli dèi concedono alle donne di giurare

sempre il falso, e un divino potere ha la bellezza.

Non è molto, ricordo, che giurava sui suoi e sui miei occhi.

Ebbene, sono i miei che sentono dolore.

Ditemi, o dei, se accade che impunemente lei vi abbia ingannato

perchè mai di un errore altrui subisco i danni ? (3.3, v.11-16)

Gli dèi le belle donne mai non puniscono benchè oltraggiati

loro stessi temendo chi di loro non teme (3.3,v.31-32)

Se è casta, tale resta pur non guardata, ma se non fa nulla

perchè non può, costei in effetti fa tutto (3.4, v.3-4)

Resistiamo ai divieti sempre bramando ciò che ci è negato

come il malato cerca l’acqua che gli è proibita (3.4,v.17-18)

Traduzione di Gabriella Leto – Ovidio – Opere- Vol. I –  Einaudi – Biblioteca della Pleiade – Torino 1999

Nell’immagine del titolo: Amore vittorioso Caravaggio, olio su tela 1602-1603 Berlino Staatliche Museen Gemaldegalerie)

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