Tristia

2187

Quando di quella notte sottentra in me tristissimo il ricordo,

quella del mio trascorso ultimo tempo a Roma,

quando penso alla notte in cui lasciai le tante cose amate,

mi scende giù dagli occhi una lacrima ancora.

Vicina era la luce del giorno in cui di uscire dai confini

dell’Ausonia estrema Cesare mi imponeva.

Né tempo avevo avuto per prepararmi né la mente adatta:

il cuore intorpidito lungamente indugiava.

Non mi curai di schiavi, e neppure di scegliermi compagni,

o vesti o altre risorse per un profugo adatte.

Ero attonito al modo di chi, dai fuochi di Giove colpito,

vive, inconsapevole della sua propria vita.

Ma quando quello stesso dolore scosse l’anima annebbiata

e io ripresi i sensi, a partire ormai pronto,

ai miei amici afflitti parlai l’ultima volta, uno o due

di quei tanti che avevo. E più di me piangendo

la mia tenera moglie me piangente abbracciava e sul suo volto

incolpevole il pianto era continua pioggia.

Mia figlia era lontana in altri luoghi su libiche spiagge:

conscia del mio destino essere non poteva.

Dovunque ti volgessi risuonavano gemiti e dolore,

all’interno l’aspetto di un funerale urlato.

C’era per la mia fine pianto di donne, uomini e ragazzi,

lacrime ogni angolo della casa accoglieva.

Se è possibile usare di grandi esempi per piccole cose,

Troia, quando fu presa, aveva quell’aspetto.

Di uomini e di cani si acquietavano le voci ormai

i notturni cavalli guidava l’alta luna.

E alzando a lei lo sguardo e accanto a lei scorgendo il Campidoglio,

congiunto inutilmente al mio Lare “O numi, –

dissi, – voi che in luoghi a me vicini abitate, e templi

che ormai con i miei occhi non potrò più vedere,

e dèi da abbandonare, che l’alta rocca di Quirino accoglie,

questo che vi rivolgo è un saluto per sempre.

E pur se troppo tardi, già ferito, mi armo dello scudo,

tuttavia liberate dall’odio la mia fuga,

a quell’uomo divino dite voi quale errore mi ha ingannato,

così che nel mio fallo un misfatto non veda

e ciò che voi sapete senta anche lui, l’autore del castigo,

e, placatosi il dio, io non sia più infelice”.

Questa la mia preghiera agli dèi, e più di me mia moglie

pregò mentre il singhiozzo le rompeva la voce.

E poi davanti ai Lari prostrata, tutti sciolti i capelli,

con la bocca tremante toccò gli estinti fuochi,

molte parole contro quegli avversi Penati pronunciando

di aiutare incapaci lo sventurato sposo.

Ormai precipitando toglieva spazio la notte all’indugio.

Voltata sul suo asse s’era l’Orsa Parrasia.

Che fare? Il dolce amore della patria faceva che indugiassi.

Era l’ultima notte. Poi l’esilio a me imposto.

Ah quante volte a chi si affrettava io dissi: “Perchè corri?

Vedi dove e da dove ad andare ti affretti”.

Ah quante volte finsi di conoscere l’ora, quella giusta

a intraprendere il viaggio stabilito! Tre volte

toccai la soglia, tre io fui chiamato indietro e obbedendo

al cuore il piede stesso mi faceva tardare.

Più volte dissi “Addio” e tornai a parlare lungamente

e, diedi, allontanandomi, gli ultimi baci. Oppure

ingannando me stesso, affidai degli incarichi già dati

voltandomi a guardare quelli che amavo. E infine

“Perchè affrettarmi? – dissi – Nella Scizia mi mandano, e Roma

devo lasciare. Duplice ragione c’è all’indugio.

A me vivo mia moglie pur se viva è negata per l’eterno,

e la casa, e le amate sue stanze, mio rifugio,

e voi che io amai di un amore fraterno, voi amici,

o cuori dalla fede di Teseo a me congiunti!

Che vi abbracci, fintanto che posso, non potrò più, forse, farlo.

Ogni ora concessami, penso che sia un guadagno”.

Senza più indugio lascio incompiute le cose che dicevo,

nell’animo mio tutto ciò che amavo includendo.

Mentre parlavo, mentre piangevamo, splendente in alto cielo,

era sorto Lucifero, stella per noi severa.

Io mi sento diviso, quasi dalle mie membra fossi scisso,

e dal corpo una parte sembrò staccarsi. Tali

sofferenze ebbe Metto quando trovò i cavalli, a punizione

del tradimento, volti in direzione opposta.

E allora veramente si alza il clamore e il gemito dei miei.

Meste mani feriscono i petti denudati.

Fu allora che mia moglie, stretta alle spalle di me che partivo,

sciolse nelle mie lacrime queste tristi parole:

“Non puoi essermi tolto. Andremo via di qui, andremo insieme:

ti seguirò, di un esule sarò l’esule sposa.

La via a me pure è aperta, anche me accetta quella terra estrema:

sulla barca del profugo sarò lieve fardello.

Di lasciare la patria l’ira di Cesare a te impone. Amore

l’impone a me. Per me sarà Cesare amore”.

Questo fu il tentativo, in cui si era provata già da prima,

e a fatica si arrese, pensando di aiutarmi.

Esco da casa (era un funerale, forse, senza il morto)

disfatto, i capelli sul viso non rasato.

Lei, pazza di dolore, si dice che abbia perso conoscenza

E sia caduta, esanime, proprio dentro la casa,

e poi, tornata in sé, insozzati i capelli di una sporca

polvere si sia alzata da quel gelido suolo.

Dicono che abbia pianto su di sé, sulla casa abbandonata

il nome del marito sottrattole invocando,

non di meno gemendo che se giacente il corpo della figlia

o dello sposo avesse visto sul rogo alzato

e volendo morire e porre fine, morendo, a ogni senso,

ma che, a me ripensando, non sia morta. Lei viva,

dunque, e a me assente, poi che questo fu il mio destino, non desista

dal prestare, vivendo, un consolante aiuto

(Tr, I, 3,vv 1-102)

Toglimi la mia passione, e la mia vita non avrà più accuse (Tristia,II, v.9)

Come torna all’arena il gladiatore vinto, anche la nave

dopo il naufragio affronta il mare burrascoso (Tristia,II, vv. 17-18)

Ma senza il mio peccato tu che cosa concedere potresti?

E’ la mia sorte a renderti possibile il perdono (Tristia,II, vv.21-22)

Perchè accadde che io vidi? Perchè resi colpevoli i miei occhi?

Perchè per imprudenza io seppi di una colpa? (Tristia,II,vv. 103-104)

Io spero in un esilio solo un po’ più mite, e in un luogo

che più lontano sia dal crudele nemico

e per quanta clemenza c’è in Augusto, semmai qualcuno a lui

per me questo chiedesse, forse egli lo darebbe.

Mi chiudono le fredde rive del Ponto che è detto “ospitale”

e che gli antichi dissero invece “inospitale”,

giacchè non moderati sono i venti che battono quel mare

e non facili approdi trova straniera nave.

Intorno sono genti per cui il saccheggio è pratica di morte

e quanto l’acqua infida la terra fa paura.

Quegli uomini che sai del sangue umano amanti, quasi sotto

l’asse della medesima stella hanno dimora.

Né lontano da qui è il luogo dove in Tauride l’altare

della dea faretrata di dura strage è sparso.

Queste terre, un tempo non odiose ai malvagi e non dai buoni

desiderate, erano i regni di Toante.

Qui la vergine Pelopeia per la sostituzione della cerva

grata alla dea il culto ne onorò in tutti i riti.

E allorchè vi giunsero, se pio o criminale non saprei,

Oreste stesso dalle sue furie inseguito

e il compagno focese autentico esempio di un amore,

che erano due corpi e un’anima sola,

subito, incatenati sono condotti al tragico altare,

che insanguinato stava presso la doppia porta.

E né l’uno né l’altro temeva la sua morte, ma ognuno

era mesto intuendo la fine del compagno.

Già la sacerdotessa col coltello insanguinato aveva cinto

con la benda barbarica le greche loro chiome,

quando dalle parole scambiate riconobbe suo fratello

e invece della morte lo strinse in un abbraccio.

Felice, ella la statua della dea che i crudeli riti odia

da quelle trasportò in migliori contrade.

Questa regione dunque, l’ultima quasi del mondo immenso,

evitata da uomini e da dèi mi sta accanto.

Prossimi alla mia terra sono esecrandi riti, se soltanto

può essere di Ovidio una barbara terra.

Voglia il cielo che i venti, dai quali Oreste fu portato via

rendano anche al dio placato le mie vele!

(Tristia, IV, 5 vv 51-83)

Traduzione di Gabriella Leto – Ovidio – Opere- Vol. I –  Einaudi – Biblioteca della Pleiade – Torino 1999

Da Gabriele D’Annunzio (nel testo riprodotto ne “Il venturiero senza ventura”, in Faville del maglio, Milano 1924):

“Prediligevo i Tristia e i libri Ex Ponto; e, più che alle sue arti d’amare e di frodare e di sedurre e di lisciarsi il viso, ero attratto dal suo crudo esilio tomitano e dall’angoscia del voluttuoso cuore irto di ricordanze sotto quel gran vento di Scizia che fecondava le cavalle anele”.

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