LA FORZA INFLESSIBILE DELLA FEDE NELLA RINASCITA DEL GENERE UMANO SECONDO OVIDIO

1896

UN EPISODIO ALLA FINE DEL DILUVIO NELLO SPETTACOLO PER IL BIMILLENARIO

24 LUGLIO 2016 – Uno dei miti più potenti di tutta l’antichità, il mito stesso che ha concesso l’ispirazione per la nascita di una religione diffusa come quella cristiana, il diluvio universale e la rinascita del genere umano, è contenuto nel dramma “Tempeste”, che sarà rappresentato a Sulmona il 20 agosto, al tramonto, come tutte le opere del “Thiasos”, Teatro Natura, all’apertura delle celebrazioni del Bimillenario della morte di Publio Ovidio Nasone nella relegazione sul Ponto eusino.

Sembra di leggere, nella condotta di Deucalione e Pirra (nell’immagine del titolo: “Deucalione e Pirra“, Juan Bautista Martinez del Mazo, olio su tela, 1645 circa, Madrid, Museo del Prado), scampati al diluvio che ha ucciso tutti gli altri uomini e tutte le altre donne, quella fondamentale frase che è rivolta da Gesù stesso: “Alzati e va’, la tua fede ti ha salvato”. E l’ambientazione è adatta solo a chi ha fede, solo a chi, nella desolazione di un mondo nel quale si intravvedono appena i confini tra la terra e il mare, tra le forme della terra e quelle degli abissi marini, spera ancora di rifondare il genere umano e di dare al mondo i continuatori di una storia di milioni di anni. Sono incerti, sgomenti, Deucalione e Pirra, nei versi di Ovidio, dai quali Sista Bramini e “Teatro Natura” hanno ricavato uno dei tre miti del loro “Tempeste”. Dalle catastrofi rinasce la vita; non c’è catastrofe che non possa generare vita, se non, sembra di capire, la catastrofe che elide la stessa fede, la forza che ogni uomo può imprimere alla sua azione, alla speranza. Pirra non può credere che deve buttarsi alle spalle, camminando, le “ossa della madre”, secondo la dettatura della dea Temi, sibillina e non disposta ad essere ulteriormente interrogata: è un progetto che atterrisce e sarebbe empio, se fosse interpretato così. Ma Temi è anche la dea della Giustizia e l’interpretazione è l’essenza stessa dello “jus dicere” al di là di tetragone impostazioni ideologiche e spiritualistiche. Si impegna Deucalione a porre in dubbio le conclusioni e il percorso logico seguito dalla sorella e compagna, pervenendo ad una lettura che fa di questo passo delle Metamorfosi, già al primo libro, una delle costruzioni più esemplari del genio ovidiano, come è riportato nella traduzione di Piero Barardini Marzolla ne “Metamorfosi”, Einaudi, I Millenni, 1979 (l’immagine è ripresa, invece, dal Museo nazioinale di Rio de Janeiro ed è di Giovanni Maria Bottalla, olio su tela del XVII sec.):

“Fu in questo luogo (l’unico non sommerso) che Deucalione approdò su piccola barca con la sua compagna di letto, e subito si misero insieme a pregare le ninfe della grotta Coricia e le divinità della montagna e Temi, la dea che predice il destino e che era a quel tempo signora dell’oracolo. Mai ci fu un uomo più buono di lui e più amante della giustizia, mai ci fu donna più timorata di lei. E Giove, quando vide il mondo allagato, ridotto a una palude stagnante, quando vide che di tante migliaia di uomini che c’erano poco prima non  era scampato che quello, che di tante migliaia di donne che c’erano poco prima non era scampata che quella, due esseri innocenti, due esseri devoti, squarciò la cappa di nubi e, dispersi i nembi con Aquilone, rimostrò al cielo la terra, e alla terra il cielo.

Cessò anche la furia del mare. Deposta la sua arma a tre punte, il dio delle acque rabbonì le onde e chiamò l’azzurro Tritone – che sporge fuori dai gorghi con le spalle incrostate di conchiglie – e gli ordinò di soffiare nella bùccina sonora per far rientrare ormai, con quel segnale, i flutti e i fiumi. E Tritone prese la bùccina cava e ritorta, che dalla punta si allarga in su a spirale, la bùccina che, quando le si dà fiato in mezzo al mare, riempie del suo rimbombo le coste a levante e a ponente. Anche allora, come egli la portò alla bocca imperlata di gocce tra la barba bagnata e vi soffiò dentro suonando, come ordinato, la ritirata, la udirono tutte le acque della terraferma e del mare e tutte, uditala, rientrarono ubbidienti. I fiumi calano e si vedono rispuntare i colli, il mare riacquista un lido, i letti riaccolgono i fiumi, anche se gonfi; la terra emerge, ricrescono i luoghi col decrescere delle acque, e dopo la lunga notte i boschi mostrano le loro cime spoglie, reggendo ancora sui rami residui di fango.

Il mondo era tornato come prima. E Deucalione, quando lo vide deserto, con i profondi silenzi che regnavano sulle distese desolate, così parlò a Pirra, con gli occhi inumiditi di lacrime: “Sorella mia, moglie mia, unica donna superstite, a cui mi hanno unito dapprima la comunanza di stirpe e il fatto che siamo cugini, poi mi hanno unito le nozze ed ora mi unisce il pericolo stesso, di tutte le terre che si stendono da levante a ponente noi due siamo tutta la popolazione: il resto se l’è preso il mare. E ancora non possiamo stare del tutto tranquilli per la nostra vita. Ancora mi offusca la mente la visione di quelle nuvole spaventose. In che stato d’animo saresti ora, poverina, se fossi scampata alla morte senza neppure me? Come riusciresti da sola a sopportare la paura? Con chi potresti sfogare il tuo dolore? Io, credimi, se il mare avesse inghiottito anche te, ti avrei seguito, moglie mia, e il mare avrebbe inghiottito anche me. Oh se avessi la dote di mio padre, di plasmare della terra e infondervi la vita, e potessi rifare i popoli! Ora il genere umano è ridotto a noi due, così è parso agli dei, e noi siamo gli ultimi esemplari”.

Così disse e piangevano. Decisero di pregare la potenza celeste e di chiedere aiuto al sacro oracolo. Subito si accostarono entrambi alla corrente del Cefìso, non ancora limpida, ma che già filava nel suo letto usuale. Attinsero dell’acqua, si spruzzarono le vesti e il capo, e quindi volsero il passo verso il tempio della dea Temi. Il tetto era sporco di pallido muschio, non c’era fiamma sugli altari. Come giunsero ai gradini del tempio, ambedue si buttarono in ginocchio chinandosi fino a terra, baciarono pieni di timore la gelida pietra e dissero: “Se alle giuste preghiere le divinità si rabboniscono, se l’ira degli dei si placa, dicci, o Temi, con quale mezzo si può rimediare alla rovina della nostra specie, e soccorri,  o mitissima, il mondo sommerso”.

La dea si commosse e dette questo responso: “Andando via dal tempio velatevi il capo e slacciatevi le vesti e gettatevi dietro le spalle le ossa della grande madre”.

Rimasero per lungo tempo ammutoliti dello stupore. Poi Pirra ruppe per prima il silenzio dicendo che si rifiutava di ubbidire e pregando con voce tremante la dea di perdonarla, ma aveva paura di offendere l’ombra di sua madre, a disperderne le ossa. E continuarono a ripetersi dentro di sé le parole del responso, oscure, tenebrose, e a rimuginarvi sopra.

Ma a un tratto Deucalione, figlio di Prometeo, fece alla figlia di Epimeteo questo consolante discorso: “Forse m’inganno, ma forse ho capito e il responso non è empio e non ci esorta a nessun sacrilegio. La grande madre è la terra; per ossa, penso, vanno intese le pietre, che stanno nel corpo della terra: sono queste che noi dobbiamo gettarci dietro le spalle”.

La figlia del Titano rimase scossa dall’interpretazione del marito; eppure non osavano sperare, tanto ambedue trovavano incredibile il consiglio divino. Ma che male c’era a tentare?

S’incamminarono e si velarono il capo e si slacciarono le vesti, e lanciarono all’indietro dei sassi, ubbidendo al responso, sulle proprie orme. I sassi – chi lo crederebbe se non lo attestasse una tradizione così veneranda? – cominciarono a perdere la loro fredda durezza, ad ammorbidirsi a poco a poco e, ammorbiditi, a prendere forma. Quindi crebbero e diventarono di natura più tenera, e allora si incominciarono a intravedere delle forme umane, ma ancora mal rifinite, come se abbozzate nel marmo, similissime a statue appena iniziate. Poi, però, se c’era in loro una parte umida di qualche succo e terrena, questa passò a fungere da corpo; ciò che era solido e impossibile a piegarsi, si mutò in ossa; quelle che erano vene, rimasero, con lo stesso nome. E in breve tempo, per volontà degli dei, i sassi scagliati dalla mano dell’uomo assunsero l’aspetto di uomini, dai lanci della donna rinacque la donna. Per questo siamo una razza dura e rotta alle fatiche e i nostri atti provano di che origine siamo”.

TEMPESTE – Thiasos, Teatro Natura- Sulmona, 20 agosto 2016 – Inaugurazione delle manifestazioni del Bimillenario della morte di Publio Ovidio Nasone a cura della testata giornalistica “Il Vaschione”.

 

Deucalione e Pirra, sopravvissuti al diluvio, lanciano i massi dai quali nasceranno uomini nuovi
DEUCALIONE E PIRRA – Giovanni Maria Bottalla, inizi XVII sec, Rio de Janeiro , Museo Nazionale di Belle Arti

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