LA PATRIA CHIAMAVA E IL GRANDE CUORE DELL’ABRUZZO RISPONDEVA

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“L’IMMORTALITA’ DELLE VITTIME” IN LIBRERIA A CENTO ANNI DALLA CANZONE DEL PIAVE

2 GENNAIO 2015 – Un filo diretto con le Alpi e, quindi, con le frontiere della Grande Guerra: lo rintraccia Alfredo Fiorani tra la terra abruzzese e i molti soldati che vissero i tre anni e cinque mesi di un conflitto inedito, di un conflitto “mondiale”. E’ di due mesi fa “L’immortalità delle vittime – Gli abruzzesi alla Grade Guerra”, edito da Di Felice (Nella immagine del titolo: una cartolina del 1917 per la XXXVII squadriglia).

Non esamina soltanto il tributo di sangue, con i 16.943 morti dei quattro distretti militari abruzzesi (Chieti 5.455, Teramo 4.998, L’Aquila 3.380, Sulmona 3.110), ma va a ripercorrere gli insospettati esempi di partecipazione e di vero attivismo morale che legarono molti giovani e le tragedie di quanti furono processati da implacabili tribunali militari. Riprende, per esempio, il “Corriere Abruzzese”, che nel 1915 osservò: “Quasi non si sapeva che fosse la patria: la guerra ce l’ha insegnato o ricordato”. Nel 1915, appunto: prima che la guerra si manifestasse per quello che è. E fu un assurdo disco rosso per il giovanissimo soldato Umberto Pace, di Pettorano sul Gizio, nato il 22 aprile 1894 e caduto il 14 agosto 1915, prima medaglia d’oro d’Italia. Pace, al quale è intitolata una caserma a Sulmona (quella del Distretto militare soppresso nel 1957) era “un fante sempre volontario nelle azioni  più arrischiate” e proprio “sul versante orientale dove imperversava la volpesca intelligenza strategica del tenente Erwin Rommel, il futuro feldmaresciallo del Terzo Reich”, sottolinea Fiorani. Pace non morì vittima della scaltra strategia avversaria. Aveva partecipato a vari attacchi e si era messo al sicuro; poi, per l’antica impostazione morale che impone il tributo anche alle spoglie di un commilitone che ha condiviso l’azione di guerra, era tornato a recuperare una salma. E poi, ancora, si era avvicinato ai reticolati nemici per far brillare tubi esplosivi. Lì si spensero i suoi 21 anni. Aveva scritto un mese prima al fratello, paragonando “il rumore assordante dei cannoni e delle mitragliatrici” ad avvenimenti più familiari: “come quando si fanno i fuochi artificiali alla festa di Santa Margherita. Alle volte – scriveva Umberto Pace – sono pieno di coraggio e di ardimento. Altre volte, invece, mi par di sentire la voce della mamma e della sorella; ed allora sembra venir meno un po’ del mio coraggio e del mio entusiasmo e corro col pensiero alla mia Pettorano e a voi”. Sono proprio i rumori implacabili della guerra, i cannoni e le mitragliatrici, a risvegliare in lui il “pensiero e salvare i miei fanti, i miei fratelli”. E Fiorani annota: “E’ un continuo essere nella vita, nell’azione, nel fronteggiare la morte, nel darsi incondizionatamente in soccorso dei “fratelli” la vera natura dell’eroe”.

Altre lettere alla famiglia non furono seguite dal sacrificio della vita e non sono riportate nel libro di Fiorani perché ormai perdute o nascoste dall’oblìo in cassetti o bauli, come quelle di un coetaneo di Umberto Pace, Pasquale Paolicelli, che scriveva nobilissime parole alla madre dal campo di concentramento di Mauthausen, già in attività nella Grande guerra, sebbene non per le finalità che furono inaugurate una ventina di anni dopo. O di Francesco Sardi de Letto, che scriveva alla fidanzata Enrichetta Massa dalla confusione del fronte, sottolineando la disorganizzazione, le disfunzioni della macchina da guerra italiana, gli abissali sprechi dello spirito di sacrificio di tanti soldati italiani.

Nella narrazione di questo libro sul centenario dell’entrata in guerra dell’Italia, si ritrovano anche le tracce di un atteggiamento diffuso nell’Abruzzo del 1915 e di quello del dopo guerra: una sorta di controllo sul livello di patriottismo, che allora si esercitava apertamente per impedire che mancasse la risposta alla “chiamata” della Patria. Giovanni Pantaleo, dagli Stati Uniti scriveva al sindaco di Sulmona per dichiararsi disposto a versare 500 lire nella sottoscrizione indetta da un comitato studentesco per erigere un monumento ai caduti per la patria. Dalla lettera prese spunto un redattore del settimanale “Il Lavoro” per rimproverare i concittadini “di non aver saputo rispondere col dovuto entusiasmo all’appello lanciato e si addolorava nel constatare che una cittadina con più di ventimila abitanti in cui non mancavano persone di larghi mezzi, era riuscita a raccogliere appena 30.000 lire”.

Forse era uno di quei moniti che tanto avevano imperversato durante la guerra, quasi una esazione di un contributo imposto dalla mentalità imperante e che nel primo conflitto mondiale aveva mietuto più vittime dei tribunali militari. Questo manifestarsi esigenti, per pretendere sacrifici dagli altri, ha connotato molti crudeli meccanismi sociali, dei quali riferisce, per esempio e per l’ambiente pratolano, Rinaldo Petrella nel suo “Il tempo delle matriarche”, quando riporta l’esperienza di un volenteroso giovane di Pratola Peligna, grande lavoratore in America e grande supporto per la sua famiglia con le rimesse periodiche, che dovette tornare e morire al fronte per far cessare le voci in paese che lo descrivevano come un disertore e si abbattevano sui parenti finendo per collocarli in un ghetto morale. Di questo si potrà scrivere in un altro libro, per impedire che il conformismo spesso rieditato si riproponga nel modo di essere di una nazione e nella sua folle marcia verso riemergenti esempi di autodistruzione.

Ma, intanto, il libro di Fiorani è una illuminante e fedele raccolta di voci e situazioni che animarono una terra dell’Italia della Grande Guerra.

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