ANNIVERSARI – IL RACCONTO DI ALFREDO DI CARLO FUGGITO NEL BOSCHETTO DALLA FABBRICA DI CONFETTI
27 AGOSTO 2013 – “L’albero che più si adatta a questo ambiente è il salice piangente” mormora Alfredo Di Carlo (nella foto del titolo) mentre cammina sul terreno dove prima si estendeva il “boschetto”. Aveva tredici anni il 27 agosto 1943 quando riemerse da un gruppo di cadaveri, unico ancora in vita dopo il bombardamento “alleato”. Ha raccontato ai fratelli scene che adesso non ha più la forza di descrivere, perchè gli sono tornate in mente chissà quante volte: gambe che non avevano più un corpo, volti sfigurati e sguardi fissi verso il cielo ma non per scrutare altri aerei, non per allertare e mettere in salvo. E poi grida angoscianti, invocazioni continue di aiuto. Era fuggito dalla fabbrica di famiglia, quel palazzetto che fa angolo con il piazzale della stazione; con lui c’era il padre, William, dietro di loro i morti, cinque, nell’opificio con macchine avveniristiche che l’artefice delle “Industrie riunite Di Carlo” aveva amorevolmente curato. “E poi la polvere che veniva dalla stazione, una nebbia impenetrabile che non si diradava sotto nessun sole”. Ma a tredici anni si apprezza soltanto la gioia di essersi salvati, di continuare una vita appena incominciata. “Quando ritornai in fabbrica, ma non fu subito, forse qualche giorno dopo, vidi che un corpo era letteralmente passato attraverso una parete e aveva lasciato stampato il profilo delle gambe, del tronco e delle braccia aperte; sembrava un crocifisso. Era stato proiettato da una bomba, non abbiamo mai saputo chi fosse”.
Da lontano si sentono le parole della appassionata allocuzione dell’avv. Lando Sciuba, che si avvicina molto a queste frasi di Alfredo Di Carlo (nella foto insieme al fratello Franco sul posto dell’eccidio) perchè racconta della avventura delle singole persone, non della comunità: la tragedia vista dalla parte di chi quel giorno si era svegliato come sempre e come sempre sperava che la guerra finisse subito. “Questo salice è piangente; e fa bene” ribadisce Alfredo Di Carlo quando ci passa vicino. Non è la prima volta che torna in questo posto, lui è vissuto per molti anni a Sulmona prima di trasferirsi a Napoli, unico ad emigrare di una famiglia con radici solidissime a Sulmona. Ma questa volta ci torna senza che nessuno che abbia passato quella tragedia sia presente, né qua dove una volta c’era il “boschetto”, né in mezzo al gruppo di sindaci, autorità varie, iscritti alle associazioni d’Arma, radunati attorno al monumento alle “vittime civili di guerra”. Sopravvissuto due volte, dunque: a quel bombardamento micidiale e inutilmente trasformato in strage quando bastava la prima “passata” che distrusse lo scalo ferroviario; e sopravvissuto a tutti quelli che sopravvissero. Al bombardamento degli aerei e a quello che il tempo fa servendosi degli anni e preferendoli alle bombe perchè non lasciano scampo.
Non è mai stato loquace Alfredo Di Carlo (nella foto accanto a due piante di salice piangente nel “boschetto” alla Stazione); ma ha una cortesia signorile che non fa mai cadere l’osservazione, la domanda, l’inciso dell’interlocutore; dote di famiglia ed accresciuta dai decenni passati a Napoli. Senza tanto inorgoglirsi racconta che buona parte del “boschetto” era del padre, che lo donò perchè si costruisse un sacrario a tutti i caduti. La chiesa che si vede adesso, quella della “Madonna Pellegrina”, è solo una parte di una idea molto più importante. “Quel giorno mio padre mi consegnò una borsa piena di denaro, tutto quello che riuscì a mettere in salvo dalla fabbrica; e mi disse di raggiungere il casino che noi avevamo vicino alla zona industriale di Sulmona. Ci si arrivava a piedi, feci tutta una corsa. Papà non si era sbagliato: nei giorni successivi l’edificio fu depredato, quasi non ci rimase niente di quello che poteva essere portato via. E buona parte della roba fu portata via dai soldati”. Italiani o tedeschi? “Italiani, italiani”. E questa non è guerra, ma solo barbarie.