TEMPESTE AFFASCINANTI SULLA SCENA DEL “CANIGLIA”

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MONI OVADIA ALLA PRIMA NAZIONALE DEL SUO “MOBY DICK”

23 MARZO 2025 – La promessa di accompagnare lo spettatore in un viaggio negli abissi è stata rispettata, in questa prima nazionale di “Moby Dick”, che Moni Ovadia ha presentato al teatro “Caniglia”. Le scene hanno fatto la loro parte, a volta predominante, perché piccole astuzie, al limite delle trovate ingegneristiche, hanno immerso la foltissima platea nei gorghi di tempeste. E negli abissi dell’anima, quelli verso i quali tutto lo spettacolo ha puntato con le vele gonfie. Ad un primo tempo didascalico, svolto con scarsa presenza di Ovadia, studiato forse per preparare alla descrizione delle esplosioni dei caratteri, ha fatto seguito, quando il sipario si è riaperto, una accelerazione verso il disastro. Qualcosa di soffocante, come il soffio della balena che imperturbabile assediava l’equipaggio, anche quando non c’era più, anche quando era il frutto dell’incubo di brava gente oppressa dall’assillo del capitano Achab. Marosi e pazzie che hanno avvolto un palcoscenico diventato piccolo, sul quale Ovadia non perdeva la calma, come non perdono la calma tutti i folli anche quando sfugge loro il risultato.

Un’ottima sceneggiatura, che andrà lontano nelle repliche e quasi certamente nella critica; ma anche un’ottima scelta delle parole nel programma del capitano fissato: “L’uomo cauto preserva; il coraggioso scrive la storia”, recita Ovadia inasprito dalla orribile mutilazione infertagli dal mostro che cercherà in tutti i mari. “Il coraggioso scrive la storia” e sembra di sentire il proclama di un imperatore romano della decadenza, rimodellato dai dittatori che non hanno avuto più niente da perdere nel XX secolo. Al di sopra della paura c’è il fissato che insegue il fantasma del mostro; al di sotto c’è un povero marinaio che al momento di salpare confessa: “Non ho nessuno che mi aspetta, che paura volete che abbia?” come direbbe uno dei tanti soldati mandati al massacro in Ucraina e prima nella steppa russa; tra l’uno e l’altro macello, in Vietnam.

La prima nazionale avrà grandi seguiti, a giudicare dalla immediatezza con la quale affronta il nodo di tutte le epoche: l’anima, o, se si vuole, l’inconscio, al punto che il più stretto collaboratore di Achab gli indica la strada: “Achab si guardi da Achab”. E l’Achab di Ovadia non è un pazzo qualunque, perché ha il barlume della coscienza che gli fa riconoscere, quando parla della sua nemica: “Ti cambia l’anima se ti avvicina”.

Che è, poi, la paura di chi brancola senza ideali, ma con tante idee di vendetta, di prevaricazione, dell’ansia e del brivido dell’incontro con il maligno.

Tutto è reso bene, al punto che, poco prima del disastro, in platea il conforto è solo quello che Melville scrisse nel 1851 e dopo tutto questo tempo Moby Dick, se mai è esistita, sarà morta e non aspetterà in Via De Nino.

Applausi sentiti per Moni Ovadia, al quale ha portato bene il giudizio entusiastico speso ieri sul teatro di Sulmona. E porterà bene aver esordito a Sulmona, come cinquant’anni fa per Gigi Proietti.

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