UNO SGUARDO DAL SUD ED UNO DAL NORD

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IL GIORNALISTA GIUSEPPE GUASTELLA RACCONTA LA SULMONA CHE TROVO’ ARRIVANDO DA RAGUSA E QUELLA CHE INCONTRA TORNANDO DA MILANO

21 GENNAIO 2010 – “Quando ero bambino e con i miei tornavamo da Ragusa, arrivati in Abruzzo mio padre perdeva l’orgoglio del siciliano. Il serpente della statale 17 che allora ancora si snodava in curve e tornanti da far ribaltare lo stomaco, gli sembrava un’autostrada. «Magari l’avessimo in Sicilia strade così larghe e senza buche», diceva sconsolato al volante della Seicento. Valicare Sferracavallo, tra Castel di Sangro e Roccaraso, era come fare le Colonne di Ercole al contrario ed entrare nella civiltà di un mondo progredito. Nei primi anni Sessanta, Sulmona e l’Abruzzo parevano avanti anni luce rispetto alla Sicilia, sembrava che ci fosse una sorta di spirito frenetico costruttivo, come se tutti volessero fare qualcosa, migliorare se stessi e la città di cui erano fieri. Era solo un’impressione, il declino era già cominciato, ma nessuno se ne accorgeva“.

Giuseppe Guastella ha 47 anni, alcune decine dei quali trascorsi a Sulmona. Qui ha incominciato la sua carriera di giornalista, intrapresa nella emittente TV1 del padre Gianni, poi percorsa all’Ansa all’Aquila, con una breve estensione nella redazione de “Il Tempo” di Sulmona non appena si trasferì con le nuove tecnologie dalla storica sede di Corso Ovidio 222 a quella in Piazza del Carmine. Ora sta al “Corriere della Sera”, dove segue soprattutto la cronaca giudiziaria e da dove è inviato spesso, non solo per processi e indagini. Abbiamo chiesto a lui di descriverci una Sulmona, prima vista da Sud e poi da Nord.

Sulmona e i sulmonesi si vantavano, e a ragione, di essere nel bel mezzo dell’Italia e di un sistema di trasporti unico e moderno. Una ferrovia che collegava la valle Peligna a Roma a Napoli e all’Adriatico, due statali importanti che facevano la stesso percorso. Insomma, in città poteva venire chiunque senza grandi difficoltà. Per molto tempo, strade e ferrovia con le merci hanno portato idee, cultura e novità. E allo stesso modo la città ne ha esportate. Così è stato, così non è più. Quando all’alba degli anni Settanta, con un’operazione dissennata e miope, perché guardava più alle tangenti immediate che al lontano al futuro, la politica decise l’industrializzazione forzata del Meridione, arrivarono le prime fabbriche. Per una ventina d’anni la città si allargò e allungò a vista d’occhio. Tutti compravano casa e si riempivano di debiti per arredarla. L’economia cresceva a tassi a due cifre, ma pochi erano consapevoli di stare assistendo a una finzione che si reggeva sull’equilibrio precario dei pesi e contrappesi della politica. Il duello democristiano tra Remo Gaspari e Lorenzo Natali garantiva a Sulmona un minimo di riguardo nella spartizione dei sussidi e degli investimenti statali, ma con la prima Repubblica finirono anche i finanziamenti.

Niente più soldi, niente più industrie e niente più uffici dello Stato e del parastato ad assorbire gli elettori. Il vento era cambiato. Non si è più rialzato. I sulmonesi sono stati sempre poco inclini alle iniziative dei loro concittadini. Quando uno ha un’idea, la prima reazione è la critica che smonta. Si potrebbe ragionare a lungo sul perché di questo atteggiamento, e probabilmente se ne potrebbe trovare agevolmente il motivo. Se uno scopre una strada nuova, la prima reazione è di sufficienza che precede la demolizione. Salvo che, quando quell’idea ha avuto successo, tutti si mettono a copiarla così che il mercato si satura e non ce n’è più per nessuno. Se uno ha cercato fortuna altrove, solo quando ha successo tutti i sulmonesi lo celebrano come compaesano. Un atteggiamento che porta a sminuire qualunque novità e a non accorgersi di ciò che si ha o si potrebbe avere.

“Chi da molti anni si è trasferito in città caotiche, inquinate e frenetiche vede le cose filtrate dalla lente dell’esperienza. Cosa hanno i sulmonesi che altri non hanno? Una città bella, a misura d’uomo, sicura, immersa in una natura ancora integra, una tradizione culturale e artigianale antichissima. Nulla di questo viene valorizzato. Un esempio? I confetti. Per generazioni le due maggiori aziende della città si sono fatte la guerra per certificare quale fosse la più antica, invece di pensare ad affermare e a tutelare il marchio «Sulmona» nel mondo. Nonostante gli sforzi, l’equazione Sulmona uguale confetti continua a resistere, ma i valori in gioco sono sempre più ridotti perché alcune aziende molto aggressive e più organizzate si stanno imponendo sul mercato nonostante il loro prodotto industriale, sicuramente meno costoso, non abbia nulla a che fare con quello nostrano. Una situazione che, se non l’ha già fatto, rischia di azzerare il mercato dei confetti sulmonesi.

L’allarme, però, non sembra scattare. Nessuno ha proposto un consorzio a marchio Sulmona, una «Dop», una «Igp», una cosa qualunque che riaffermi una qualità per la quale chiunque in Italia sarebbe disposto per le ricorrenze della propria vita a spendere qualcosa in più rispetto ai confetti industriali. Qualche iniziativa privata si sta facendo avanti, ma durerà? E l’ambiente? Chi ha fatto un giro lungo le Alpi italiane, francesi, austriache, svizzere sa bene che vale il principio: una cima, una funivia. Il livello di antropizzazione e cementificazione è altissimo. Fai una fatica della misera per arrivare su e lì ci trovi il ristorante con il parcheggio. In Abruzzo non è così, in vetta non c’è solo chi come te ha gettato il sangue per raggiungerla. Sono i buongustai delle vette, dei boschi e dei prati, turisti un po’ diversi dalla massa, una nicchia, un’elite alla quale nessuno sembra pensare. Nessuna campagna pubblicitaria fuori dalla regione e all’estero con il risultato che pochi sanno quanto ci sia da fare e vedere in Abruzzo. E la ricettività? Si dirà che segue il mercato. Più turisti, migliore accoglienza. Sarà, ma forse è il caso di invertire questo principio e cominciare a metter su bed and breakfast sul modello dei garnì altoatesini: prezzo basso, qualità altissima, cordialità imbarazzante.Creare un sistema-ambiente che ruoti intorno a Sulmona e legato a un’offerta culturale adeguata. Ma come si fa a fare questi ragionamenti in una città che, dicono, abbia scoraggiato Gian Carlo Menotti quando voleva fare il Festival dei due mondi, poi finito a Spoleto, oppure ha decretato la morte di una delle poche, vere mostre dell’artigianato artistico abruzzese di qualità che per anni ogni estate garantì l ‘assorbimento della produzione di decine di piccoli artigiani e un’occupazione a un centinaio di ragazzi attraendo a frotte turisti da tutta la regione e non solo? E che dire dell’idea originali di fare un parco delle religioni?

“Tutti a criticare, a scagliarsi contro, a deridere una cosa che, magari migliorata, avrebbe potuto avere un senso. Da una ventina d’anni vivo fuori, dal ’94 lavoro a Milano. Di recente sono andato in Sicilia, a Ragusa. Quella che più di quarant’anni fa era una landa desolata, oggi è una città in movimento che punta sul turismo. Grazie alla fiction di Montalbano e al sapiente restauro di un intero quartiere barocco, è piena di turisti in qualsiasi periodo dell’anno. Quando torno a Sulmona, sarà che l’occhio si è abituato alla metropoli, ma sempre più di frequente mi sembra che la città si stia rimpicciolendo e incupendo. È come se si stia chiudendo in se stessa a difendere quel poco che le resta. Un paesone sempre più vecchio perché sono sempre più i giovani che vanno via. Al di là di chi intraprende una strada che a Sulmona obiettivamente non ha possibilità di sbocco, chi va via lo fa essenzialmente per due ragioni: ha spirito d’iniziativa, ma non è solo scoraggiato, oppure perché è disperato. In entrambi i casi, sono coloro che possono dare di più.

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