LA CONCLUSIONE DELLE METAMORFOSI E IL DESTINO DI OVIDIO
7 AGOSTO 2017 – E’ una Venere sconvolta dalla conoscenza del futuro imminente che attende Giulio Cesare nel Foro quella che si rivolge a Giove per implorare che il grande condottiero di Roma venga salvato dal destino già scritto. Ovidio la racconta nell’ultimo libro delle sue “Metamorfosi” e descrive tutti i risvolti umani del suo essere figlia del sommo artefice dell’Universo, compreso quello di non ottenere soddisfazione: “Da sola, o figlia, vorresti cambiare il destino, contro il quale nessuno può nulla? Vai pure di persona nella dimora delle tre sorelle, e lì vedrai il poderoso archivio del mondo, fatto di bronzo e di solido ferro, che non teme né le scosse del cielo, né l’ira del fulmine, né, sicuro ed eterno, qualsiasi altra rovina. Lì troverai, inciso su metallo indistruttibile il destino della tua discendenza. Io stesso l’ho letto e l’ho annotato nella mente e te lo riferirò, perché tu non ignori più il futuro. Quest’uomo per il quale tu, dea di Citéra, ti affanni, ha compiuto il suo tempo, è giunto al termine degli anni che doveva trascorrere sulla terra. Tu e suo figlio farete che salga al cielo come dio e che abbia un posto nei templi – suo figlio il quale, erede del nome, sosterrà da solo il peso che sarà trasferito su di lui e fortissimo vendicatore dell’uccisione del padre avrà al suo fianco noi nelle guerre”.
Il riferimento a Ottaviano, non ancora chiamato Cesare Augusto, è evidente, perché proprio lui, adottato nel 45 a.C. da Giulio Cesare, perseguiterà i partecipi alla congiura. “Per opera sua – continua Giove – le mura dell’assediata Modena, vinte, chiederanno pace; Farsalia sentirà la sua forza, e il bagno di sangue dell’Emazia si ripeterà a Filippi, e un grande nome sarà sconfitto nelle acque di Sicilia. E la consorte egiziana di un condottiero romano, erroneamente confidando nel matrimonio contratto, cadrà, e invano avrà minacciato di asservire alla sua Canòpo il Campidoglio nostro. Perché enumerarti i paesi stranieri, i popoli situati sull’Oceano ai due estremi del mondo? Ogni luogo abitabile che c’è sulla terra, sarà di costui. Anche il mare gli sarà soggetto. Data la pace al mondo, rivolgerà il suo animo a regolare la vita civile, ed emanerà leggi giustissime. Disciplinerà i costumi, dando lui l’esempio, e preoccupandosi delle età future, delle generazioni a venire, ordinerà al figlio, nato dalla sua santa moglie, di portare il suo nome e di proseguire la sua missione, e solo quando avrà raggiunto un’età veneranda salirà nel cielo stellato, tra i suoi parenti. Per il momento, tu, rapita dal corpo trucidato l’anima di Cesare, fanne una stella, perché Cesare divinizzato contempli per sempre, dall’alto della sua sacra dimora, il nostro Campidoglio e il Foro”.
Un accenno alla non lieve contraddizione di aver sposato tre donne e di aver scritto una legge moralizzatrice è palpabile, nell’analisi della condotta di Cesare Augusto; diremmo che non sfugge, pur negli ampi elogi. Ma non finisce qui.
“Ha appena pronunciato queste parole, che la grande Venere, invisibile, si ferma in mezzo alla sede del Senato e sottrae dal corpo del suo Cesare l’anima non ancora liberatasi, e non permette che essa si dissolva nell’aria e la porta su tra gli astri del cielo. E mentre la porta, si accorge che diventa luminosa, e si infuoca e la lascia andare dal proprio seno. Quella vola più in alto della luna e, trascinandosi dietro per lungo spazio una coda fiammeggiante, brilla, ormai stella, e vedendo quaggiù le meritevoli opere del figlio riconosce che sono più grandi delle sue, e gode che il figlio sia superiore”.
Siamo agli ultimi trenta esametri delle migliaia che formano le “Metamorfosi” e la trasformazione di Giulio Cesare in stella del firmamento sembra passare in secondo piano rispetto alla superiorità di Ottaviano. Delle due l’una: o c’è il massimo servilismo (e allora verrebbe da chiedersi come abbia potuto Augusto punire con la relegazione chi gli consegnava un poema così osannante alla sua figura), oppure c’è più di un pizzico di esagerazione per ridimensionare la figura del primo e forse più noto imperatore dei Romani. Il silenzio serbato da Ovidio sulla sua “colpa” ha alimentato molte congetture, in duemila anni, cioè da quando lo stesso Augusto è salito al cielo per diventare “divo” a sua volta.