UN PRINCIPIO RIVOLUZIONARIO PER I TEMPI NOSTRI, MA NON NEL MEDIOEVO – LA NORMA CHE SI APPLICAVA NELLA CURIA SVEVA DI SULMONA PER IMPEDIRE CHE I GOVERNANTI DICESSERO: “IO SO’ IO E VOI…”
21 AGOSTO 2024 – L’atteggiamento dei governati, più di quello dei governanti, è indice del senso morale o, più laicamente, della concezione dello Stato in una certa epoca. Il tempo che attraversiamo è quello della diffusa aspirazione ad ottenere piccoli benefici, che non sono soltanto legati a clientele, ma che confermano una relazione preferenziale, talvolta al di sotto delle vere e proprie clientele, comunque non meno appagante. Sempre più spesso l’orecchio mediamente attento percepisce come la prima domanda che il cittadino di oggi si pone quando deve avere a che fare con uno qualsiasi dei servizi della pubblica amministrazione sia: “Chi conosco in quell’ufficio?”.
E’ la domanda rivelatrice della condizione del suddito: di chi concettualmente non si è sollevato dal giogo che per millenni ha formato i rapporti sociali, soprattutto, purtroppo, nel Meridione d’Italia. E’ la concezione di un rapporto che discende direttamente dall’istituto della “commenda” medievale, trasferito sic et simpliciter nelle relazioni dei giorni nostri, anche perché dall’alto dell’apparato statale imperversano usanze e talvolta simil-ricatti che affossano ogni aspirazione alla pari dignità tra governanti e governati. Una galleria delle mostruosità, al riguardo, si trova nel recente “Io so’ io – Come i politici sono tornati a essere intoccabili” di Sergio Rizzo, edito come altri volumi del giornalista da Rizzoli, che fra l’altro fa giustizia del detto attribuito al Marchese del Grillo, ma già riportato dal Belli. L’abuso che governanti di varie parti politiche fanno del loro ufficio ha raggiunto, nei tempi della democrazia, livelli perfettamente consoni allo sviluppo delle comunicazioni, dei circuiti finanziari, dell’assopimento della coscienza civica, semmai questa sia stato il motore che ha spinto la breve stagione di “Mani pulite”.
Eppure non è stato sempre così, nella Storia.
Un mezzo per stroncare gli appetiti o la smania di sopraffazione dei sudditi c’era nell’”oscuro Medioevo”. Era il metodo di rintuzzare l’arroganza, quando questa giungeva fino alle aule di giustizia, tipica espressione di chi vuole esibire un potere più forte delle stesse istituzioni e vivere del rispetto che la società di deboli finisce per tributare a chi sfoggia la pretesa di essere superiore alla autorità costituita.
Si applicavano anche nella importante curia regionale di Sulmona le regole delle “Costituzioni di Melfi”, dettate in gran parte dall’Imperatore Federico II e riprese da quelle prima introdotte da Ruggero: “Tutti i nostri ufficiali dovranno sapere con certezza che se condoneranno questa multa per favorire qualcuno, Noi sicuramente la ricaveremo dai loro stessi beni”. Vale a dire che l’”ufficiale” pagherà per chi non paga in seguito ad un atto di benevolenza emanato a… spese dell’Impero. Un principio rivoluzionario? Beh, dipende da quando si vuol datare la rivoluzione. Se si vuol realizzare il curioso paradosso della rivoluzione introdotta per decreto, si può dire che l’atto di Federico II fosse rivoluzionario. Ma la Storia colloca le prime rivoluzioni in senso tecnico al XVIII secolo. Si applicava, questa legale ritorsione, anche nel tribunale per antonomasia dell’Abruzzo, quello di Sulmona ai tempi dello “stupor mundi” e riguardava la sacralità dell’amministrazione della Giustizia. Le parti dovevano stare in silenzio davanti al giudice: “non si permettano di esporre le loro ragioni, o perorare la causa di altri, prima di averne avuto il permesso da colui che presiederà il giudizio”. “Se un avvocato, o la parte principale, vogliono ricordare all’avvocato che sta parlando qualcosa in diritto o in fatto, si preoccupino di dire quanto intendono al momento opportuno senza gridare, a meno che non temano di ricevere danno dal silenzio nel caso in cui sia necessaria una rapida obiezione o in cui qualcuno voglia correggere un errore dell’avvocato”:
E qui veniamo al punto: “Se qualcuno, già richiamato tre volte dal baglivo o dal giudice – a un certo intervallo di tempo – o se, come talora avviene, qualcuno annoiato per il giudizio, sarà stato richiamato consecutivamente una, due tre volte e non avrà voluto tacere, dovrà versare alla nostra curia, se rusticus, un augustale; se burgensis, due; se miles, quattro; se barone, otto; se conte sedici”.
Non sfugga anche un principio, che taluno ritiene una conquista recente, della progressività della sanzione in ragione dello status del sanzionato: il conte paga sedici augustali, cioè sedici volte di più del rusticus.
Quella sì, che era una rivoluzione.
Nella foto del titolo: immagine di sovrano svevo al Museo civico di Sulmona