RICCO E INEDITO MATERIALE PER UN RAFFRONTO TRA LA CURIA DI FEDERICO II E I PROGRAMMI SOCIALI CONTEMPORANEI: DAI LATROCINI AGLI INQUINAMENTI DELLE ACQUE AI FILTRI D’AMORE AGLI ESORCISMI E SOPRATTUTTO ALLA TUTELA DEI DEBOLI CHE POTEVANO SCEGLIERSI I TRIBUNALI NELLE CAUSE CONTRO I POTENTI
13 SETTEMBRE 2022 – C’è stato un impero nel quale i potenti non avevano maggiore ascolto dei diseredati nell’amministrazione della giustizia; e a tal punto gli ultimi della società erano considerati dalla legge che potevano scegliere il foro della controversia che li vedesse opposti a un potente “in quanto hanno ragione di temere la potenza dei loro avversari”. Ci sono stati tribunali che dovevano rispondere direttamente all’imperatore se non avessero rispettato, nelle loro decisioni, le linee fissate da una legge fondamentale, chiamata costituzione, anzi “costituzioni”; e questo su semplice istanza del suddito, intorno alla quale i giustizieri regionali dovevano riferire in pochi giorni (senza internet…). Erano, quelli, gli organi giudiziari che dovevano dare risposte ora per ora, non in mesi o anni, dalla “citazione” di un suddito verso l’altro. C’erano imperatori che, trattando delle donne che vendevano il loro corpo, le definivano “sventurate”, sebbene trafficassero in “turpi guadagni”, e che indirizzavano loro la propria “benevolenza”; e l’imperatore stesso affermava di porsi “come padre e figlio, signore e servo; padre e signore nel generare la giustizia e, una volta generata, nel difenderla, figlio nel venerare la giustizia e servo nel servirla incondizionatamente”, giammai per perpetuare il suo potere e difenderlo contro le ansie di giustizia.
Sicuramente era ancora un impero lontano da quello dell’età dell’oro che Ovidio preconizzò mille e duecento anni prima quando lo identificava nel sistema sociale nel quale colui che fosse stato chiamato in una causa non avrebbe dovuto temere il suo giudice (“né gente implorante clemenza temeva le labbra del giudice”, “nec supplex turba timebat iudicis ora sui” (Metamorfosi, liber I). Ma era un impero che aveva progettato e legiferato per una società che raccogliesse molti caratteri di quella inutilmente auspicata oggi da molte altre “costituzioni”, compresa quella americana che si prefigge di realizzare la “felicità” degli americani, facendola assurgere al rango di diritto.
Sede per l’amministrazione di questo tipo di giustizia è stata per l’intero Abruzzo Sulmona dal 1231, cioè da quando erano entrate in vigore le “Costituzioni di Melfi”, per lo più dettate da Federico II e per altro formate da raccolte di norme precedenti, comprese quelle di Ruggero I; e Sulmona fu scelta dal più glorioso degli Hohenstaufen quale sede della curia, cioè del distretto nel quale si rendeva giustizia. In quanto curia, soggiaceva agli obblighi imposti dall’imperatore per i giustizieri che “non debbono reggere le curie, tenere le udienze e deliberare mensilmente, come erano soliti fare, ma presiedere le curie continuativamente di persona, o tramite altri loro giudici, ai quali non si dovranno affidare niente altro che le udienze delle cause”. Una palese e perentoria soluzione dell’ormai vetusta querelle sugli incarichi stregiudiziali ai giudici asseritamente troppo oberati di lavoro. “Ispezionino con frequenti visite le città e i luoghi delle loro giurisdizioni, avendo riguardo quanto più possibile per le spese degli abitanti delle province, evitando di convocarli in luoghi lontani per l’amministrazione della giustizia”; esattamente il contrario di quello che vanno facendo da decenni i rappresentanti della cosiddetta democrazia costituzionale, su continua pressione dei giudici, per la riduzione delle sedi giudiziarie.
E si faccia molta attenzione a come prosegue la costituzione I.II.1, sempre su “Come si debbono comportare i giustizieri nella provincia loro assegnata”: “Non protraggano i processi per i delitti manifesti, ma puniscano i malfattori negli stessi luoghi in cui i crimini sono stati perpetrati; estirpino dalla provincia, punendoli con estrema severità, criminali – come briganti noti e ladri – che non possono nascondere i loro delitti con alcuno stratagemma”.
Ma cardine per la credibilità dei giustizieri e, quindi, dell’imperatore come giustiziere supremo, era che loro e tutti gli ufficiali o le loro famiglie “non ricevano nulla dai litiganti”, “neppure cibo o bevande, tranne il cibo e le bevande che servono per due giorni successivi, ricevendoli un’unica volta quando si trattengono in un luogo”. La sanzione era quella di versare alle casse dell’impero quattro volte il bottino, ricevuto o anche soltanto promesso.
L’influenza della scienza nella conduzione dell’impero si riscontrava anche nel divieto assoluto di dispensare “filtri d’amore”, per vincere le superstizioni: pena di morte se i filtri e gli esorcismi avessero provocato la morte del soggetto passivo e pena detentiva anche per il caso che nessun danno si fosse verificato. “Chiunque detenga presso di sé o venda sostanze tossiche o veleni che non siano utili o necessari alla preparazione di medicine, sia impiccato”. Ed un passo essenziale della costituzione LXXIII dà l’idea del sostrato spirituale del vero Medioevo, al di là delle fregnacce che autori popolari cercano di descrivere nella paccottiglia adatta a chi dell’ignoranza fa occasione di arricchimento: “E per quanto possa apparire privo di senso e, per parlare propriamente, assurdo a chiunque comprenda la verità o la natura delle cose, che con sostanze o bevande le menti umani possano essere indotte ad amare o a odiare, a meno che non lo provochi la suggestione malata di chi li assume, non vogliamo che, comunque, resti impunita la presunzione temeraria di costoro che desiderano fare del male anche se non possono”.
Se chi detta la legge della società ove regna si indirizza ai giustizieri con un enunciato che è più una regola morale di un precetto normativo, si ha la prova di quale livello spirituale avesse animato la sedimentazione di “costituzioni” tramandate fino a Federico II e da questi ristudiate, riformulate, rinforzate con la fede nella scienza che gli veniva dal passato dell’Occidente e dagli scritti degli scienziati arabi.

Quello che avrebbe atteso i responsabili dell’inquinamento di Bussi si può percepire dalla pena che attendeva i pescatori che avessero gettato nelle acque “il tasso o piante di tal genere, che causano ai pesci malattie e morte; a causa di ciò, infatti, anche i pesci divengono velenosi e nocive diventano le acque che bevono talora gli uomini e più spesso le bestie”. Federico comminava la pena dei lavori forzati per un anno; immaginarsi quale pena la curia di Sulmona, voluta dallo “Stupor mundi”, avrebbe riservato a chi, da Bussi, non ha buttato tassi o piante del genere: ha provocato inquinamenti a distanza di trenta anni, con il mercurio che non è stato “gettato dai pescatori”, ma che ai capelli dei pescatori è risalito dalle acque del Tirino e del Pescara finite nell’Adriatico.
E certamente negli uffici giudiziari della Sulmona voluta dall’imperatore non si sarebbe sentito parlare di prescrizione. XXXIX.2 sanciva che il maestro giustiziere che avesse ricevuto una petizione, “consultatosi nello stesso giorno con uno dei predetti giudici, esaminerà il secondo giorno la natura di tutte le petizioni risolvendo da sè quelle pertinenti al suo ufficio, che devono essere sigillate con il sigillo della giustizia dell’Impero e con il sigillo della camera, quelle cioè che sono di forma; le altre, invece, che richiedono di essere trattate da Noi, le rimandi al nostro notaio con il proprio sigillo, tramite un suo messo o uno dei richiedenti“.
Mani amputate per i molti ladri, anche pubblici ufficiali che si impossessassero di (piccole) sostanze imperiali; figuriamoci se potevano presentarsi per ricoprire cariche al servizio dell’imperatore, come invece si possono presentare adesso per fare deputati e senatori.

Come per ogni testimone del fuoco sacro che anima il governante che si elevi fino a distaccarsi dai legami terreni prima ancora di passare ad altra vita, anche per Federico II le “Costituzioni” fissarono il punto di non ritorno di uno spirito ormai immedesimato nella missione di profonda riforma sociale. In base a quelle norme il figlio Enrico VII, che riprendeva il nome del nonno, fu condannato a morte per tradimento (pena poi commutata nella prigionia a vita). E fu condannato anche il primo dei figli, il Federico al quale era stato assegnato il feudo di Pettorano sul Gizio e che dovette rifugiarsi in Spagna per sfuggire alla sanzione terribile, causa la sua non chiara (o troppo chiara) condotta nelle traversie dell’impero e delle guerre.
Poi ci ha pensato la storia ad applicare la sanzione più aspra, la decapitazione, al nipote di Federico II, Corradino figlio di Corrado IV, per mano di Carlo d’Angiò. Veramente non fu la storia, ma l’interpretazione distorta della costituzione per lesa maestà: come se combattere a Tagliacozzo, dunque in aperta battaglia tra due eserciti, poteva equipararsi ad un attentato al sovrano. Questa sicuramente non sarebbe stata l’interpretazione (per quanto caldeggiata da un papa partigiano) che avrebbe dato il giustiziere della bella, dotta e umanissima Sulmona, sede della curia regionale del Sacro Romano Impero e maturata nell’esempio di umanisti come Pier delle Vigne e il seguito imperiale.
E Federico II non l’avrebbe accettata neppure se fosse stato al posto del re vincitore.

Nella foto del titolo il “Liber Constitutionum”