UN CONVEGNO ED UNA CRONACA INEDITA
28 MARZO 2014 – La violenza che caratterizzò i moti del maggio 1848 a Pratola si può spiegare solo con la posta in gioco: non erano movimenti di popolo che si potessero inquadrare in una generalizzata ondata risorgimentale. Scaturivano dai profondi squilibri che la delusione sulla politica della proprietà agraria aveva lasciato nelle classi più povere. Questa chiave di interpretazione è scaturita oggi dal convegno che il circolo culturale intestato a Panfilo Serafini nel 150° anniversario dalla morte ha organizzato all’auditorium dell’Agenzia di promozione culturale.
Si può parlare, in sostanza, di una bomba che aveva il suo detonatore dal 1815, cioè da quando si arrestò il nuovo corso introdotto nel 1806 con le leggi francesi, che a Sulmona avevano soppresso l’Abbazia celestiniana. La terra non era un concetto legato alla protezione e allo sviluppo naturalistico: dalla terra veniva il pane di ogni giorno e il sangue che dilagò nelle vie di Pratola confermò che indietro non si tornava. Alcuni spunti interessanti sono venuti con il collegamento tra la componente ecclesiastica di Corfinio e il Re Ferdinando di Napoli: più in particolare, con la presenza del prevosto, Vito (o Tito) Corsi, alle giornate sanguinarie di Pratola del 7 e dell’8 maggio 1848: proprio il Corsi che era fratello del più stretto consigliere del Borbone. Potrebbe esserci stata una strumentalizzazione, qualcosa che respingesse definitivamente l’ansia risorgimentale. Ma è una chiave di lettura molto problematica, perchè anche a Sulmona, con spiriti come quello di Panfilo Serafini, il Risorgimento si avvertì tra l’elite e di certo non tra coloro che si scontravano per le strade. Poi c’è da considerare che quei moti furono solo di Pratola: un po’ perchè Sulmona aveva sempre professato la sua fede borbonica (anche quando a L’Aquila fu proditoriamente ucciso un ufficiale del Re di Napoli in un agguato e non certo in una manifestazione di aperta ostilità e di battagliero spirito alla Pietro Micca e da Sulmona partirono i soldati per sedare i disordini conseguenti) e un po’ perchè Sulmona non aveva avuto l’esperienza feudale che legava Pratola all’Abbazia celestiniana.
Hanno relazionato il prof. Puglielli e la dott.ssa Santilli. Quest’ultima ha focalizzato il suo studio sulla figura di Gabriele Tedeschi, coinvolto di riflesso nei moti e costretto a sperimentare i ferri dei Borboni nelle prigioni di Santa Monica a Sulmona, dove morì in condizioni anche in parte da chiarire. Si è parlato a tale proposito di un patriota dimenticato, che solo negli anni Sessanta del secolo scorso è stato parzialmente rivalutato. La sua vicenda è anche segnata dalla dolorosa esperienza di un processo davanti alla Gran Corte Criminale di Napoli per cospirazione contro il Re Ferdinando e contro le istituzioni: un processo del quale non si è mai saputo l’esito, ammesso che mai ci sia stato.
L’antropofagia negli atti parlamentari
Nella biblioteca di Montecitorio giacciono gli atti parlamentari del Regno di Napoli: quindi anche una interrogazione per conoscere la verità su “episodi di antropofagia in Pratola Peligna” e in occasione della rivolta del 1848. Furono giorni di violenza inaudita, che non si possono spiegare con nessun anelito alla libertà, ma solo con l’odio profondo per un sopruso, forse quello della terra. Se non si è trattato di antropofagia, certamente di decapitazione e scotennamento. Qualcosa che non c’era stato prima per secoli o forse millenni e che non si replicò. Le fonti sono scarsissime: forse non si farà mai chiarezza su quella “primavera” pratolana come l’avrebbero chiamata le fonti giornalistiche odierne con scarsa originalità.
Fu un moto a favore del Re, perchè un frammento storico letto proprio oggi riferisce di grida che inneggiavano al Re e contrastavano la Costituzione. Una cronaca è riferita in un libello scritto a mano, secondo il metodo degli appunti, integrati con impressioni e dati storici, da Vincenzo Colajacovo, che era nato nel 1796 e morì a 97 anni (nella foto due pagine del taccuino con le annotazioni dei prezzi). Si riconnettono tali moti alla reazione contro una “setta carbonara”: “Molti popoli si sollevarono a favore del Re. Pratola fu la prima” Si parla della morte di “cinque Signori” e di “molti feriti con pietre, bastoni ed armi bianche”. Un temperamento venne per l’opera dell’”arciprete D. Domenico Santilli che piegò il ginocchio al popolo (…) Napoli si rivoltò dopo Pratola nello stesso mese di maggio, sempre a favore del Re”. Coincidono con quanto narrato oggi da spunti storici le annotazioni a mano dell’estensore di questa ignota storia sociale: “I Signori di Pratola per il timore scapparono. Restò senza amministrazione il Comune”. Il popolo espresse l’aspirazione “ad alta voce” che venisse mantenuto l’ordine per scongiurare una “guerra Civile”. Si giunse alla determinazione di organizzare una “guardia popolare di giorno e di notte per le campagne, nel comune e nella Strada Consolare”. L’ordine (“il governo con le sue leggi”) si “riattivò nel mese di settembre dell’anno 1848”.
Nella foto del titolo due pagine del taccuino di Vincenzo Colaiacovo nato nel 1797