TRADIZIONE E METAMORFOSI DELLA PROVINCIA NELL’ULTIMO LIBRO DI VENEZIANI
2 DICEMBRE 2012 – Sembra una scelta necessaria quella di parlare di patria a Sulmona: non solo per le fiammate di sulmonesità che si avvertono, sempre tonificate dal passare del tempo anziché spente, nella nostalgia di quelli che stanno fuori e che meno degli altri abruzzesi riescono ad ambientarsi in altre patrie, ma anche perchè il Poeta, il vate per antonomasia, il “Sulmonese” (come definiscono Ovidio anche dopo il Sessantotto quanti hanno studiato le sue Lettere dalla Romania) invocava i luoghi del ricordo con una energia che era soprattutto speranza di rivederli, come non avvenne. E la scelta di questo giornale ( v. “Perchè questa voce libera” nella sezione EDITORIALE), di restare nei margini di un minuscolo bacino idrografico che arriva dall’Alto Sangro all’Adriatico e che va poco più oltre dell’ombra di un campanile, può apparire anacronistica. Di anacronistico e anche di ipocrita c’è, invece, la proclamazione di un mondo universale, nel quale tutti sono in grado di riconoscersi in ogni momento e dinanzi a chiunque, senza anima, senza appartenenza: giusto il clima e l’ambiente per creare patrie fittizie, non territoriali, solo per respingere i “diversi”, dopo che si sono spenti i fuochi della tradizione. Sono i pompieri del focolare domestico quelli che studiano gli ordigni nucleari: un modo come un altro per governare il fuoco sotto altra forma.
Sbucciando il concetto di patria
Della patria e del particolare riflette Marcello Veneziani (foto del titolo) nel suo ultimo libro “Dio, Patria e Famiglia, dopo il declino” (Mondadori) per fare giustizia di molti luoghi comuni, seppure con il disincanto di chi ha già visto il declino di tutti e tre i luoghi dello spirito: “Lasciate la retorica, le cerimonie ufficiali, le fanfare, le guerre, le armi, la supremazia, i pomposi allestimenti della storia. Sbucciatela di tutto quel che è indigesto o fuori e fuori tempo. Vedete quel che resta del suo frutto. La patria è la mia casa, la mia lingua, il mio paesaggio, il luogo delle origini, la terra dei padri e delle madri e di tutto ciò che è nostrano, a cominciare dalla persone. Un bene essenziale, puro, senza offesa verso altri, che suscita amore senza scatenare odio e possesso, che ti fa sentire non occasionale passeggero di questo mondo, ma abitante di una terra e proveniente da una storia (…) Sbucciate l’amor patrio di ciò che non è essenziale, vivo e meritevole di vita, anziché gettarlo per intero, come frutto avvelenato inacidito”. Ma il punto qualificante di questo non lieto, eppure più consapevole e per questo più affascinante percorso di Veneziani sta proprio nel rivendicare la necessità di confini, anzi di frontiere: “C’è per forza bisogno della frontiera, e dunque, dello straniero, se non del nemico, per suscitare l’amor patrio nella distinzione tra noi e gli altri? In realtà il limite definisce e garantisce la realtà, i confini sono come i lineamenti del volto che danno una fisionomia a ciò che ci è caro, un’inconfondibile identità” e “Del resto, la totale astrazione delle differenze, il rigetto di ogni patria, l’intercambiabilità mondiale degli uomini nell’uguaglianza assoluta dei medesimi ha già avuto un nome, un’idea e purtroppo una storia: il comunismo, ossia la comunità assoluta, che si vuole senza confini, e perciò irreale”.
Tradizione più che identità
Non è una concezione statica e condannata alla fissità quella che Veneziani tratteggia della patria e, quindi, più compiutamente della città o della contrada di origine: “La patria è considerata il luogo dell’identità, come la famiglia. Ma l’identità non è data ab origine e una volta per tutte. Non è inerte, rocciosa e compiuta. L’identità fluisce, si rifinisce per analogia e per contrasto, persiste cambiando. Più che all’identità, allusiva di un’impossibile fissità, meglio allora riferirsi alla tradizione che si trasmette comunicando ed esprime il mutarsi nella continuità. Nella tradizione si diviene ciò che si è, non si è per sempre quel che si è stati una volta. La tradizione non sta, diviene; persiste, ma si modifica”. E Veneziani a sua volta cita il Debray dell’Elogio delle frontiere: “una frontiera riconosciuta è il miglior vaccino contro l’epidemia dei muri” per concluderne che “Chi abbatte le frontiere spaziali solitamente innalza alte frontiere temporali che spezzano i flussi tra epoche e tra generazioni. Chi impone la dominazione del presente, il culto del simultaneo e del contemporaneo, preclude la maestosa via che collega il passato al futuro tramite il presente, chiamata tradizione. Perduta quella via, spaesato nel presente globale, il disperso brancola nell’angoscia”.
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Il problema, senza infingimenti, è guardare con slancio verso chi abita sulla stessa strada, senza proclamarsi fratello di un papuaside che proprio in questa lontananza porta il suo maggior pregio e il motivo di lodi incondizionate: non nel mio giardino, si potrebbe parafrasare così il programma di un ospite perfetto. Ma il senso di patria è fatto soprattutto di tolleranza e di capacità di convivere, per l’ovvio motivo che è ben difficile organizzarsi una identità comune se non si confida neppure con chi sta nella stessa ombra del campanile. Perciò sono “uomini di buona volontà” i patrioti sereni che si dichiarano consapevoli strumenti di una tradizione in divenire più degli internauti e dei frequentatori di mille scali aerei. Al di là di ogni retorica.