I PROGETTI DI D’ALFONSO E LO SCEMPIO DELLE FINANZE PUBBLICHE
19 GENNAIO 2016 – Con un generico riferimento alla rettificazione dell’autostrada Roma-Torano-Pescara, era passata quasi inosservata la grande idea di spendere circa otto miliardi di euro per accorciare i tempi di percorrenza tra Adriatico e Tirreno di venti minuti, quando non si riesce ad accorciare di cinque minuti i tempi di percorrenza tra la barriera di Lunghezza e Viale del Policlinico o la Stazione Tiburtina.
La trovata che pare sia di Toto, ma che va collegata al geniale impegno di Luciano D’Alfonso per le opere inutili come la fondovalle del Sangro (condannata dalla natura tragicamente scivolosa di tutto il comparto montagnoso che lambisce), si compone di un tratto che eliminerebbe del tutto la Valle Peligna: da Bussi, più o meno, fino a Collarmele (cioè un po’ più in là del casello di Pescina) un’altra autostrada sostituirebbe il segmento che attraversa Popoli, Pratola Peligna (dove c’è un altro casello), Prezza, Cocullo (dove c’è un altro casello), tutta la galleria Cocullo-Pescina, Pescina (dove c’è un altro casello) per finire in una landa desolata sulla quale si abbattono infernali bufere per circa sei mesi l’anno; dunque non servirebbe neanche a preservare il traffico dalle insidie maggiori in quanto a percorribilità.
Un disastro del genere, che viene a negare l’importanza di opere di grande rilievo ingegneristico, come la stessa galleria e la serie di viadotti da San Cosimo ad Anversa degli Abruzzi, presenterebbe due opzioni: quella di chiudere del tutto l’autostrada nell’attuale percorso da Bussi a Collarmele, oppure quella di lasciare il vecchio transito aperto e inaugurare l’altro. Oddìo, non sarebbe lo scandalo peggiore per una autostrada che è partita con una biforcazione che ha fatto ridere e fa ridere l’Europa: quella di Torano, dalla quale si diparte il tronco a servizio dei lupi del Gran Sasso e di una città tenuta in vita con la tenda ad ossigeno come L’Aquila; e quella che raggiunge città di vitale importanza per la regione, come Avezzano, Sulmona, Chieti e Pescara.
Neppure si deve ritenere che l’abisso tra costi e benefici scoraggerà un qualsiasi governo nazionale dall’intraprendere questo sdoppiamento: non solo l’improduttività dell’investimento non fece arretrare i fautori del progettato e realizzato traforo del Gran Sasso (che sarà stato secondo solo al faraonico ponte sulla Stretto di Messina, progetto morigerato, al confronto, perché contornato sempre dall’aureola di barzelletta che non lo ha mai fatto realizzare), ma addirittura, una volta fatto il traforo che finiva in una landa desolata, priva di cristiani e di industrie, il presidente del Consiglio Craxi disse che non gli piacevano le opere pubbliche a metà e, quindi, si arrivò sostanzialmente ad Alba Adriatica, con livelli di traffico che non sfiorano neppure quelli di una strada statale 17, cenerentola in quanto a manutenzione e in considerazione.
Ma, almeno, il traforo del Gran Sasso si disse che solo sulla carta doveva servire a unire l’Adriatico e il Tirreno, tra loro già perfettamente collegati: serviva, nei tempi della guerra fredda, nei quali fu progettato, a scavare un rifugio anti-atomico come si deve per il Papa; se è stato per questo, sono stati soldi spesi bene. Ma velocizzazione del traffico e investimenti in opere pubbliche hanno inciso come il due di coppe.
Fatti i debiti rapporti, quindi, lo sberleffo alla Valle Peligna ci sta tutto: anzi dovrebbe essere cosa fatta, se non cade questo governo regionale di un Attila D’Alfonso, impegnato ad essiccare arterie di grande vitalità e portanza per dedicarsi ai fallimenti della fondovalle Sangro, ai raccordi ferroviarii pratolani solo per soffocare lo scalo di Sulmona e, appunto, alla duplicazione di tratti autostradali che così come stanno servono benissimo tanto il territorio che gli automobilisti che hanno fretta. Una canzone di Gigi Proietti, come tante delle sue efficace, dice che quando non fa la guerra, l’omo cerca de fa’ er monnno a tozzi. E’ proprio questo il caso della ridicola rettificazione dell’autostrada per Roma, in nome, si dice, di diecimila posti di lavoro. Ma se si deve lavorare solo per tenere occupate le forze lavoro, non si può, con danni minori e con un accordo di cooperazione, mandare diecimila operai a… rettificare le banane in Africa?