TRA FASCINAZIONE E ILLUMINISMO

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ALL’ANNUNZIATA LA PRESENTAZIONE DI UN LIBRO SUL DOTT. PAOLO SPIGLIATI

26 GIUGNO 2022 – Giovedì 7 luglio sarà presentata all’Auditorium dell’Annunziata una raccolta, fresca di stampa, di scritti su Paolo Spigliati, che per molti anni è stato un punto di riferimento delle professioni e della cultura cittadine. La selezione di questo “ricordo a più voci” è stata articolata dal dott. Ezio Mattiocco. Riportiamo quello che il curatore ci ha chiesto:

Fu l’incontro tra un medico ed una legge a segnare l’inizio della mia lunga fascinazione per le illuministiche procedure di conoscenza e approfondimento, al di sopra di posizioni ideologiche e preconcette. Il medico era il dott. Paolo Spigliati; la legge era una rivoluzionaria normativa per il contrasto alla coltivazione e alla diffusione delle sostanze stupefacenti. Il luogo nel quale scoccava la scintilla della curiosità, e, quindi, dello stimolo primordiale verso la cultura, erano gli studi di una emittente televisiva locale, che aveva organizzato un dibattito sulla preoccupante dilatazione del consumo di droghe in provincia.

Dalle astrazioni dell’università, quella legge del dicembre 1975 mi proiettava alla concretezza del contrasto che lo Stato si era assunto di articolare per curare una piaga sociale. Paolo Spigliati voleva verificare se concetti come quello della “modica quantità” di sostanze stupefacenti avessero una utilità pratica oppure non fossero veicoli di confusione e, quindi, di preventiva assoluzione di ogni reo; al tempo stesso, se l’”uso personale” poteva essere una categoria oggettivamente apprezzabile e non, piuttosto, un modo di lasciare al giudice la discrezionalità che scade nell’arbitrio, per lo più ai danni dei più fragili. Fino alla riforma del 1990, questi temi sono rimasti al centro del difficile lavoro di interpretazione. Ma le riflessioni proposte in quello studio televisivo sono state il lievito di quelle che la vita propose dopo: ai giovani, ai medici, ai giuristi, lontano dall’emotività dei momenti di grande esaltazione degli obiettivi repressivi e di quasi compiaciuta assuefazione alle distonie di una giurisprudenza che sembrava allontanarsi sempre di più dagli insegnamenti illuministici del pari trattamento di fattispecie analoghe per abbracciare il demone delle soluzioni impreviste.

Seppure non ci si veda tutti i giorni

Quando si incontrano persone come Paolo Spigliati non si ha bisogno di vederle e sentirle ogni giorno, oppure ogni anno, per avvertire la spinta che porta ad un approdo e dà solo il tempo di raccogliere le forze per cercarne un altro più alto. Così, quella legge 685 del 1975 ripropose le tematiche del primo incontro con il medico che chiedeva lumi di diritto naturale e diritto positivo. Fu durante una delle esperienze più coinvolgenti del servizio militare, quando, da sottotenente della Guardia di Finanza alla quinta Compagnia Aeroporti di Roma, collezionavo verbali di sequestro di eroina e hashish (la cocaina era, al tempo, costosa e rara) e allo scalo Leonardo da Vinci di Fiumicino si parava davanti un girone dantesco di nuovo schiavismo, composto di corrieri che non agivano in proprio come gli spacciatori di provincia o di quartiere. Erano quelli che sapevano di non fare nessun “uso personale” e di non detenere “modiche quantità”. Un caso eclatante tra gli altri riguardava un contadino siriano che nella biancheria intima portava due chili e mezzo di eroina e non si scompose al momento dell’arresto. Sapeva di passare in carcere i sei anni ai quali fu condannato, ma al tempo stesso era sicuro che l’”organizzazione” avrebbe garantito dignitosa sopravvivenza alla famiglia altrimenti destinata alla fame. Mandai al dott. Spigliati delle considerazioni che mi vennero negli intervalli dal servizio di frontiera. Quando l’anno dopo lo rividi a Sulmona, mi disse che quella lettera era stata letta durante un corso di formazione sanitaria; e commentata da lui e dai presenti. Era diventato un materiale di conoscenza e consapevolezza. Spigliati non… buttava niente, come avrebbe fatto un ricercatore con gli strumenti all’alba della conoscenza, secondo il metodo che porta a servirsi di tutto perché il valore delle ricerche spesso non sta solo nei dati, ma in chi sa raccoglierli e trovarvi una nuova chiave di lettura.

Un attore convincente

Affinchè scocchi la scintilla della curiosità, tuttavia, non è sufficiente che si compiano ricerche scrupolose e le si abbinino a studi altrettanto seri. Occorre destare attenzione, talvolta sorprendere. E allora il medico si sbilanciava e vestiva i panni dell’attore. Fu in un tardo pomeriggio di gennaio, quando mi convocò nel suo studio, alla Divisione di Medicina dell’Ospedale, per rispondere ad una intervista sui contenuti dell’etica nelle professioni durante gli ostili anni Settanta, nel reflusso del grande balzo economico italiano. Aveva da poco incominciato a nevicare. Il discorso di Spigliati era fluente e variamente articolato, come spesso capita di fare ai toscani. Si dette l’obiettivo di ben rappresentare le difficoltà di un medico al primo incontro con un paziente e volle descrivere le insidie del disagio mentale, talmente subdole da trascinare in trappola all’improvviso. Fece l’esempio del mitomane, ma senza orpelli; cominciando a parlare come fa un mitomane e, quindi, proponendomi di comprare una Maserati che aveva parcheggiato fuori dell’ospedale. Con il discorso in prima persona, voleva creare un’atmosfera così verosimile, direi autentica, che cominciò ad illustrare le caratteristiche del motore e della ripresa, abbinate alla vantaggiosità dell’offerta. Giunse al punto che quasi sembrava scortese declinare l’invito, perché sembrava che la Maserati fosse reale e parcheggiata davanti all’ospedale. Poi cambiò argomento, ma aveva dato benissimo l’idea di come il mitomane sapesse convincere. E, dopo quasi tre ore di colloquio sull’etica nelle professioni (e di nevicata fitta), all’uscita mi venne il sospetto che sotto le sagome appesantite dalla bianca coltre ci fosse davvero una Maserati.

Non separava mai la trasmissione del sapere da un metodo didattico che privilegiava l’esperienza. O per lo meno questo faceva quando voleva rendere più agile la conversazione. Attingeva, quindi, agli esempi della vita di tutti i giorni, facendo affidamento sulla capacità dell’interlocutore di ridurre ad unità il materiale apparentemente informe della vita quotidiana. Ad una conferenza su un mezzo secolo di cronaca giornalistica cittadina tentò di spiegare la funzione della stampa in poche parole e, ovviamente, non antepose analisi concettuali. Intervenendo dal pubblico, portò l’esempio della papera, che depone l’uovo, ma non canta; e della gallina, che per ogni uovo canta e avverte il padrone, il quale, a sua volta, ha il beneficio di godersi il prodotto fresco. Si avvertiva, in quell’intervento, un pratico contributo all’analisi e alla consapevolezza delle cose reali; ma anche un caloroso omaggio per la migliore riuscita della conferenza. La voce si levava dal coro perché la conoscenza non fosse elargita solo ex cathedra e all’unisono il conferenziere e i presenti formassero una cultura nuova e partecipata; ma subito dopo la voce tornava ad essere del coro e non impostava nessuna tesi imperativa, nessuna ipotesi da condividere salvo prova contraria.

...e un protagonista nelle professioni

Si finirebbe per circoscrivere la figura del dott. Paolo Spigliati nella aneddotica se si proponessero solo queste esperienze di vita intensa e, in fondo, singolare (a riguardarla con il filtro della storia cittadina). Ho copiato dal suo metodo per poter sostenere, adesso, che i caratteri e la cultura di persone come lui possono trasmettersi fin quando Sulmona sarà una città, pur piccola, ma tuttavia composta di quelle istituzioni che portano nelle sue strade e nella sua vita professionisti e uomini che sappiano trasmettere il portato dei loro studi e del loro spirito, del loro modo di stare in società e di vivificare la società che frequentano.

Il dott. Spigliati, come quasi tutti coloro che hanno dato a Sulmona una impronta di sé, veniva da lontano e ha trasmesso un messaggio di rinnovamento che, per la vitalità e l’energia del personaggio, è stato percepito più che per altri.

Ma in tanto egli ha potuto incontrare Sulmona, e Sulmona lui, in quanto era chiamato ad un ruolo, quello di primario di una divisione ospedaliera, che è espressione del livello organizzativo di un territorio, quintessenza del ruolo di una città. La galleria di immagini che i cinquant’anni di incontri con Paolo Spigliati hanno lasciato, ci propone di fare un parallelo tra la città che lo ha accolto e quella che lo ha salutato nell’ultimo giorno della sua lunga vita. E’ stata la città che ha nutrito i suoi interessi ed è stata da lui ripagata con grande impegno, diremmo con affetto, non solo per la profusione del suo lavoro di medico (certamente preponderante), ma anche per la presenza in tutti gli avvenimenti che hanno caratterizzato la sua crescita. Quella degli anni Sessanta era la Sulmona ancora molto chiusa in sé, non diversa dalla città che era stata descritta, con rara incisività, da Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia”: la città dei commercianti diffidenti, che alla richiesta di un particolare prodotto, non visibile in vetrina o sul banco, sfoderavano non la cura nel trovare qualcosa di simile che soddisfacesse il cliente oppure, alla peggio, la classica promessa che di lì alla prossima visita genere e specialità sarebbero stati forniti; ostentavano la diffidenza verso chi pretende chissà cosa, quasi un atteggiamento di superiorità, come quello che ancora anni dopo distingueva i commercianti aquilani da quelli pescaresi. Era ancora, quella, la città dei tanti “coiffeurs” per la gara di acconciature: “Oltre alle confetterie – scrive Piovene – vi è un numero stragrande di barbieri per uomo, alcuni con negozi monumentali e tappezzati di specchiere tra cui volteggiano le mosche. Ma in questi duomi di cristallo bisogna spesso attendere, paghi di contemplare la loro bellezza, perchè il padrone ed i garzoni sono andati al caffè. Molto meno vistosi i parrucchieri per signora, per lo più segregati nel primo piano d’uno stabile, quasi ginecei dai quali lo sguardo dev’essere escluso (…) Le due passioni femminili predominanti sono i profumi e gli ori. Si accentua il gusto dei profumi, osservato già ad Ascoli Piceno, proprio nel nostro Mezzogiorno. Si vendono più profumi quaggiù che nelle regioni ricche, e si scorgono inspiegabilmente esposti in abbondanza profumi francesi di grido. Il gusto dei profumi, mi dicono i negozianti, è divenuto popolare e anche la pastora vi trova il paradiso della sua povertà”.

La Sulmona raccontata da Guido Piovene

La descrizione di Piovene è impeccabile; forse mancava l’analisi dei motivi per i quali si consumassero tanti generi di lusso. E non va trascurato, a tal proposito, che la città veniva da un periodo di significativa ricchezza, magari un po’ risalente, ma ancora protratto, come in una famiglia si vive al di sopra delle possibilità se il tempo anteriore ha consentito più che il superfluo. La bell’époque di Sulmona non fu soltanto una moda, perché lo sviluppo economico della città fino alla prima guerra mondiale era stato fondato su cose concrete: prima tra le quali la posizione che le garantì l’incrocio tra le principali linee ferroviarie del centro-Italia, cioè la dorsale appenninica da Terni alle porte di Napoli e la trasversale da Roma a Pescara. All’epoca quella stazione era più di un aeroporto di provincia di adesso. Gli effetti di tale crescita economica si andavano esaurendo dopo il secondo dopo-guerra, ma la città conservava le sue pretese quando vi soggiornò l’acuto osservatore dell’Italia. Tuttavia, la società sulmonese era ormai chiusa in se stessa e la diffidenza dei negozianti, le abitudini delle frequenti pause dal lavoro degli artigiani, la propensione alle spese superflue la facevano apparire decadente.

Tale si sarà manifestata a professionisti come Paolo Spigliati, che la conobbe in giovinezza e vi riscontrò i caratteri di una città dalle grandi potenzialità: culturali, turistiche, ma anche strettamente legate al mondo delle arti liberali.

In tale contesto Paolo Spigliati si è inserito con un suo portato di cultura e di metodo di conoscenza, che era soprattutto il modo di approcciare il prossimo. Stare con Spigliati era condividerne fin dal primo momento lo spirito. Si sarebbe detto che lo scambio intellettuale era la condizione normale, a meno che non si manifestassero energie ostili e contrarie. In questo la sua presenza ha aiutato a rompere gli steccati in un ambiente che dell’entroterra abruzzese aveva la cifra più manifesta: la diffidenza che scaturisce dall’isolazionismo. Non che si sia del tutto emendata pur dopo la seconda, positiva scossa economica del Novecento, negli anni Settanta, quando si è assistito ad una rinascenza che probabilmente le è stata regalata dalla geografia, più che dalla capacità imprenditoriale. La città si è trovata, infatti, al centro dei flussi più importanti di nuovi commerci e industrie, arricchita dal polo pescarese, avvicinata dall’autostrada a quello romano, ancora legata a fil doppio a quello napoletano.

Paolo Spigliati sembra aver colto le risorse di una città all’apparenza sonnacchiosa. E si è lanciato con le sue energie, in ambiti nei quali poteva non rimanere ancorato a una cultura settoriale come quella strettamente professionale, che rischia di autoescludersi. Egli è stato uno degli animatori più fervidi della Camerata Musicale Sulmonese, cioè di una di quelle espressioni del ruolo regionale recitato da Sulmona, forte non solo di quanto si faceva nell’ambito ristretto delle mura medievali, ma capoluogo di un territorio vasto, differenziato e a sua volta costellato di cittadine dal passato florido, dalle grandi potenzialità per il futuro e da un presente di per sé palpitante, come Roccaraso, con le consorelle degli Altipiani.

Il ruolo degli intellettuali e delle istituzioni

L’esperienza di Paolo Spigliati nella Sulmona del secondo dopoguerra e, per una fortunata, longeva stagione, in quella dei giorni nostri (quando questo anziano saggio ha seguitato a scrivere e a presentare libri) ci dice che la progressiva chiusura di presidi istituzionali e sociali non si ripercuote solo nella perdita di posti di lavoro e, quindi, direttamente, in termini economici. La soppressione di un tribunale, la mortificazione di un ospedale, la chiusura della sua banca, il trasferimento, lento, ma inesorabile, di caserme, uffici finanziari, archivistici, portano con sé lo stravolgimento di una società: decapitano la classe dirigente e professionale che non sempre (anzi, a Sulmona quasi mai) resta abbarbicata nelle modalità di ristrettezze d’orizzonte delle specifiche aree di interesse.

Ma oggi a quali giovani parlerebbe?

Proviamo ad immaginare un colloquio tra Paolo Spigliati e un giovane dei giorni nostri e dei nostri quartieri sulmonesi, un incontro simile a quello descritto in apertura di queste note; e chiudiamo gli occhi e il pensiero per non dover immaginarne uno futuro, dei prossimi decenni. Mancherebbe il protagonista maturo, perché non ci saranno le espressioni di quella intellettualità che si alimenta di uffici e istituzioni. E, purtroppo, non ci saranno i protagonisti giovani, perché le statistiche di questi anni hanno rappresentato un massiccio abbandono dei ragazzi alla conclusione degli studi, senza un ritorno nel mondo professionale.

Nella foto del titolo : il Dott. Paolo Spigliati (terzo da destra) nella presentazione de “Il Tempo” di Gaspare Barbiellini Amidei

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