EFETTI DISASTROSI DELL’INGORDIGIA: LA FAME PUNISCE GLI EMPI

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EFFICACE DESCRIZIONE IN  OVIDIO DI UN DEMONE DEI NOSTRI GIORNI

5 GENNAIO 2017 – Tra le più vivide descrizioni personalizzate, quella della Fame nelle Metamorfosi di Ovidio gareggia per efficacia con l’Invidia.

Deve assecondare un desiderio della dea dell’abbondanza e delle messi, cioè di Cerere, invocata dalle Driadi per una esemplare punizione di Erisictone di Tessaglia, un “tipo che disprezzava le divinità e non bruciava mai nulla in loro onore sugli altari”; “si dice che addirittura profanò un recinto sacro a Cerere violandovi con la scure un antico bosco”. E Ovidio ci prepara a percepire tutta la nefandezza del gesto violento ed empio di Erisictone, con il descrivere “una quercia immensa, secolare, che era da sola una foresta intera. Era tutta addobbata di nastri, di tavolette commemorative, di ghirlande, a ricordo di voti esauditi. Tante volte sotto di essa le Driadi avevano intrecciato danze festose, tante volte tenendosi per mano avevano fatto girotondo intorno al tronco, grande quant’era: di circonferenza misurava quindici cubiti abbondanti”. Questo rispetto sacro per la pianta più forte, questo stesso identificare la quercia con un simbolo di devozione (tramandato peraltro nella civiltà contadina fino al nostro XIX secolo e nella “ferax terra” di Ovidio, quando le querce si piantavano per soccorrere le esigenze dei discendenti della terza o quarta generazione e non si potevano tagliare prima della loro maturazione: nella foto una colossale quercia lungo la strada stale 17 al bivio per Pratola Peligna) non impedì a Erisictone di farne scempio.

Di qui la richiesta di una sanzione che ristabilisse la dignità violata. Cerere, dinanzi alla domanda delle Driadi, “acconsente, e annuendo col capo, bellissima, scuote i campi carichi di messi lussureggianti ed escogita un tipo di pena che susciterebbe pietà, se qualcuno potesse mai avere compassione di un simile malfattore: farlo divorare dalla terribile Fame”.

L’ordine alla Fame di sprigionare le sue pulsioni devastanti

Cerere non può incontrare direttamente la Fame (c’è una salvaguardia, dovuta alla prudenza, per evitare che si incontrino gli opposti) e si rivolge ad una divinità minore dei monti, a un’Oreade campagnola e le dice: “C’è, nelle estreme contrade della Scizia, un luogo gelato, terreno triste, terra sterile priva di messi, priva di alberi. Abitano lì il pigro Freddo e il Pallore e il Brivido, e la Fame allampanata. Vai, e di’ a quest’ultima di appiattarsi nei visceri sciagurati del sacrilego; e che non si lasci sopraffare dall’abbondanza dei cibi e invece sia lei la vincitrice, nella gara contro le mie risorse. La distanza non deve spaventarti. Prendi il mio cocchio, prendi i miei draghi; con le briglie li guiderai per il cielo”. L’Oreade andò “e vide in un campo sassoso colei che cercava, la Fame, intenta a svellere con le unghie e con i denti i rari fili d’erba. Ispidi capelli aveva, occhi infossati, viso pallido, labbra sbiancate dalla muffa, fauci irruvidite dalla rogna, pelle incartapecorita sotto la quale si distinguevano in trasparenza i visceri; dalle anche spigolose spuntavano le ossa secche, al posto del ventre c’era lo spazio per il ventre; il torace l’avresti detto sospeso, sorretto soltanto dalla colonna vertebrale; la magrezza faceva risaltare  le articolazioni, le rotule delle ginocchia sembravano enfiagioni, i malleoli sporgevano, protuberanze mostruose. L’Oreade, come la vide, le riferì da lontano (non osò infatti avvicinarsi di più) il messaggio della dea. E dopo qualche istante, benchè si tenesse a rispettosa distanza, benchè fosse appena arrivata, cominciò a sentirsi affamata, o così le parve, per cui si rilevò in alto, fece dietrofront e guidò di nuovo i draghi verso l’Emonia”. La Fame non tardò ad obbedire e a fare sentire gli effetti della sua natura; raggiunse il sacrilego e “mentre questi era immerso in un sonno profondo (era notte), lo avvinse tra le sue braccia e gli insufflò in corpo se stessa, respirandogli in bocca, in gola, nei polmoni, e spandendogli col fiato uno sfinimento nelle cavità delle vene. Assolta la missione, lasciò le regioni  fertili del mondo e tornò alla sua desolata dimora, nel suo covo consueto”.

Un raptus che, assecondato,  non cessa

Qui prosegue l’efficace e plastica descrizione di Publio Ovidio Nasone, che nell’ottavo libro delle “Metamorfosi” racconta come Erisictone “è preso, in sogno, da voglia di mangiare, e muove a vuoto la bocca e affatica i denti a sbatterli contro i denti e si stanca il gozzo a ingollare, insoddisfatto, cibi inesistenti, e invece di pietanze divora, senza costrutto, aria sfuggente. Quando poi si riscuote dal sonno, la mania di mangiare divampa, furiosa, e gli dilaga per la gola ingorda e per i visceri incendiati. Non può aspettare: tutti i prodotti del mare, della terra, del cielo, li esige, e davanti alle tavole imbandite si lagna di essere a digiuno e in mezzo alle vivande chiede vivande, e ciò che potrebbe bastare a intere città, a un intero popolo, non basta a lui solo, e quanto più insacca nel ventre, tanto più brama. E come il mare accoglie in sé i fiiumi di tutto il mondo e non si sazia d’acqua e si scola le correnti che vengono dai posti più lontani, e come il fuoco devastatore mai rifiuta alimenti e brucia tronchi infiniti e più gli se ne danno più ne vuole e dalla quantità stessa è reso sempre più vorace, così la bocca dell’empio Erisitone inghiotte ogni pietanza e altre intanto ne reclama. Ogni cibo per lui chiama cibo, e mangia e mangia, ma sempre spazio vuoto si riforma. E ormai con la sua fame e con l’abisso senza fondo del suo ventre aveva assottigliato le sostanze paterne, ma non attenuata si era, neppure allora, la terribile fame, e la gola seguitava imperterrita a spasimare. Alla fine, mandato giù nei visceri il patrimonio, non gli restava più che la figlia, la quale non meritava un padre simile. Anche la figlia egli vende, ridotto in miseria. Lei, nobile d’animo, non vuol saperne di avere un padrone”. Chiede al dio del mare, Nettuno, di liberarla dalla servitù e Nettuno “la trasforma dandole l’aspetto di un uomo e abbigliandola nel modo che si conviene a chi prende pesci”, al punto che il padrone (che l’aveva comprata al padre) cerca la giovane che gli era stata venduta e, non riconoscendola, la considera persa.

Il degrado di un padre che sfrutta la figlia

Rinsavisce Erisictone? Neanche per sogno: “quando si rese conto di avere una figlia trasformabile, la vendette più volte, a più padroni. E la nipote di Triopa li piantava andandosene ora cavalla, ora uccello, ora vacca, ora cervo, e in questo modo procurava all’ingordo genitore viveri non meritati. Alla fine, però, quando per la virulenza del morbo tutte le possibili risorse furono bruciate – il che attizzò ancora di più il tremendo male – Erisictone cominciò a lacerarsi e strapparsi e morsi i propri arti, e a nutrirsi, sventurato, rosicando il proprio corpo”.

Sembra di vedere il Fisco che divora le risorse nazionali per alimentare gli sperperi di un apparato mostruoso; e più mangia e più vuole, con il 70% che sottrae al reddito dei lavoratori autonomi “e quanto più insacca nel ventre, tanto più brama” e chiama ladro chi cerca di salvare un 20% per pagarsi la pensione.

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