RICORDI DI UN DOCENTE DI VENTI ANNI
8 NOVEMBRE 2016 – Lo straordinario seguito che il breve articolo sulla morte di Vincenzo Accardo ha ottenuto nella “rete” (con circa 4000 letture in soli tre giorni e con la riproposizione e condivisione in alcuni network) ci induce a pensare che una persona riservata come lui, uno che ha partecipato attivamente alla vita politica cittadina pur non perseguendo alcun progetto di affermazione personale, può dare comunque molto e lasciare un grande seguito.
Per questo, per chi vorrà, proponiamo la lettura di altri piccoli e grandi articoli e sfogliamo, insieme a chi intenderà soffermarvisi, qualche fotografia. L’arco di tempo nel quale Enzo Accardo è stato a Sulmona va dai primi anni Settanta fino all’altro ieri, con una breve parentesi per l’avventura in Brasile, dove aveva intrapreso una attività imprenditoriale nel settore agricolo insieme ad altri pochi sulmonesi. Tuttavia, incredibile a dirsi, il ricordo che lo ha accompagnato di più, l’esperienza che gli tornava più in mente negli intervalli che si concedeva in Piazza XX Settembre o al caffè Di Marzio prima di intraprendere la giornata, era il periodo di insegnamento in una specie di riformatorio, con ragazzi presi da grave disagio sociale (molto diffuso anche tra gli anni Cinquanta e Sessanta in Campania); e quando ha intrapreso questo insegnamento aveva meno di venti anni. Pochi per assorbire nella reale portata il dramma di famiglie dissestate, attraversate da lampi incontenibili di criminalità, ma sufficienti per percepire la frustrazione di partecipare ad un sistema simil-scolastico che non poteva dare risposte alle angosce delle tante vite mandate allo sbando e conservate nel sistema della malavita quasi come fosse una sistemazione di lavoro, un impiego.
Le questioni di giustizia sociale vengono e si maturano da queste esperienze brucianti; le esigenze di legalità si stampano nelle coscienze dei ventenni che, provenendo da una famiglia di tutori dell’ordine (il padre era un Forestale), impattano nell’altra faccia della luna, quella che resta al buio rispetto alla illuminazione dei principi condivisi dalla società costituita. Da qui, nelle conversazioni che di leggero non avevano niente, tranne il sostegno di qualche battuta di humor per non precipitare nella pedanteria, ci è parso trasparissero i motivi per la scelta di una parte politica, quella del Partito Liberale, che assegna alle scelte dell’individuo le responsabilità delle azioni sociali e giammai risolve nell’appartenenza ad un gruppo, ad una classe sociale, la giustificazione di una condotta.
Scelta energica, difficile da sostenere negli anni nei quali si preparavano i temi poi esplosi nel Sessantotto; ma scelta coerente, che era anche una impostazione di vita nei rapporti personali e nell’atteggiarsi di fronte alla legge. Infatti, l’esperienza di quella attività didattica durò poco, perché la impostazione dei rapporti in quegli ambiti territoriali travolge i buoni propositi del legalitarismo e, dal di dentro, l’unica esigenza insopprimibile di quei ragazzi era quella di uscire al più presto, non certamente per riformare la società con la legge. Il dramma, la tragedia della criminalità si sono riproposti quando negli anni bui delle continue rapine ai gioiellieri, Accardo portava i campionari di preziosi e riceveva continue segnalazioni di colleghi che dovevano lasciare la borsa o… la vita. Probabilmente, l’esperienza con gli ambienti desolati dei riformatori, con la tetraggine della assenza di ogni prospettiva di inserimento sociale per quei ragazzi, deve avergli insinuato una particolare tolleranza per le forme più condannate della devianza, un “nolite iudicare” che può essere una debolezza, ma che talvolta è la pura consapevolezza di quanto siano inadeguati i rimedi ufficiali per il contrasto alla criminalità minorile, cioè proprio quegli stanzoni delle prigioni-scuola.