“TEUTOBURGO” DI MANFREDI RIPROPONE LE CAUSE DI RELEGAZIONI ED ESILI
6 OTTOBRE 2016 – Ancora l’ambiente della Roma augustea anima un romanzo storico, il “Teutoburgo” di Valerio Massimo Manfredi.
Solo poco più di un capitolo è dedicato alla battaglia vera e propria, quella che oppose il governatore romano della Germania, Varo, al guerriero Arminio, nato dalla tribù dei Cherusci, ma cresciuto e maturato a Roma per poi tradire l’esercito più forte del mondo conosciuto e assecondare il richiamo irresistibile delle origini. Per la maggior parte del romanzo passano sotto gli occhi del lettore le dinamiche del potere, nel suo habitat più elevato. Si è scritto molto, si scriverà ancora molto sull’epoca d’oro di Roma, sulle ipotesi dell’esilio di Giulia, amata nipote di Augusto e sulla stessa successione dell’imperatore.
Lo fa Manfredi suggerendo ipotesi che non approfondiscono le contrapposizioni reali: forse non si farà mai più chiarezza sui personaggi di una tragedia che scosse la famiglia imperiale, quindi anche su Publio Ovidio Nasone, che vide “quello che doveva rimanere nascosto” e che, secondo le ricostruzioni storiche oggi più accreditate, avrebbe parteggiato per la corrente filo-antoniana.
Ma “Teutoburgo” aiuta a comprendere perché Germanico, figlio del sommo comandante Druso, abbia riscosso la fedeltà e la dedizione totale di tutti i ranghi dell’esercito e di tutto un impero: anche quella di Ovidio, che forse deve la sua relegazione a Tomi per aver operato una scelta di campo.
Mentre Ovidio osservava dal Ponto Eusino le vicende dell’Impero, si trasferì nella leggenda l’immagine di Germanico: oltre cinque anni dopo quell’11 settembre del 9 d.C., la data della disfatta di Varo, si recò con un esercito possente a Teutoburgo per dare sepoltura alle migliaia di soldati romani massacrati nell’agguato e lasciati in pasto alle fiere, quando era ancora visibile l’esposizione di ossa costellate dei segni del massacro e della crudeltà barbarica (alcuni teschi furono trovati inchiodati agli alberi della selva attraverso le orbite degli occhi).
E il mitico comandante, che in Germania si era portato pur tra le perplessità del nuovo imperatore Tiberio, ristabilì il predominio della “pietas” e della civiltà latina. Di lì a poco, quando aveva sistemato le cose tedesche, a trentatrè anni, morì ad Antiochia: era il 19 d.C. e Ovidio aveva cessato di sperare nel suo ritorno a Roma e, quindi, di vivere, due anni prima.