CONTEMPORANEO DEL MESSIA

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UNA DRAMMATICA NARRAZIONE DELLA NATIVITA’ NELLA IMMAGINARIA AUTOBIOGRAFIA DI OVIDIO

28 MAGGIO 2016 – L’annuncio è di quelli che giungono al cuore come una cannonata: è assordante anche se sussurrato, non ha bisogno di aggettivi, perché è l’annuncio di una rivoluzione che durerà almeno duemila anni e coinvolgerà miliardi di persone; che si rinnoverà pur nelle miserie di coloro che lo hanno sfruttato per sottomettere gli altri uomini e rivestirlo dei contenuti di guerre da crociati.

Vintila Horia lo racconta nella sua immaginaria autobiografia di Publio Ovidio Nasone e fa parlare proprio il medico dell’esule, a Tomi: un uomo combattuto, uno che ha cercato una sua religione, cioè una ipotesi convincente come non sono state quelle che ha abbracciato; soprattutto un uomo che non sa reggere e tenere in segreto quello che ha visto e si dà all’alcol, talvolta si avvicina di più alla disperazione che al volo della speranza. Teodoro, di origini greche (all’epoca Tomi era frequentata per lo più da greci) parla nel quinto anno della relegazione di Ovidio nel Ponto eusino, quindi nel 13 d.C. e Horia sfrutta con grande maestria la contemporaneità dell’ultimo spicchio di vita del Vate con la nascita del Cristo che inconsapevolmente Ovidio cercava dopo aver intrapreso altre strade per avvicinarsi a fedi distanti da quelle di Roma.

Se di un miracolo bisogna parlare, riguarda soprattutto il motivo che spinge il medico Teodoro ad aprirsi con uno straniero e a girare il coltello in una piaga che lo affligge, perché il segreto è troppo più grande di lui, e può ingenerare ripercussioni tragiche negli equilibri della comunità nella quale vive: “Nel momento in cui la strada, cominciando a salire, mi nascondeva le poche luci del villaggio, vidi la stella. Era alla mia destra, in mezzo al cielo, più bassa delle altre stelle, si spostava lentamente, lasciando dietro di sé uno sfarfallìo leggero che svaniva nell’aria come fumo. Mi fermai per vedere meglio. Anche la stella si fermò: arrestò il suo spostamento laterale e cominciò a scendere. Man mano che scendeva, io riuscivo a distinguere la linea delle colline, imbiancate da quella luce come se fosse caduta la neve qualche istante prima. In quel momento, due contadini del luogo, o due pastori, attraversarono la strada, a qualche passo dal punto in cui mi trovavo, e proseguirono senza vedermi in direzione della stella. Li seguii da lontano senza farmi notare. La stella – o ciò che io consideravo una stella – si era posata sopra una collina, sul cui fianco vidi brillare un’altra luce, molto più fioca. Mi avvicinai e notai che la luce usciva dall’ingresso di una di quelle grotte in cui i contadini della Palestina custodiscono il gregge in inverno. Una decina di persone stavano inginocchiate davanti all’ingresso, gli sguardi rivolti verso l’interno pieno di altre persone immobili, nello stesso atteggiamento. Mentre arrivavo, qualcuno mi riconobbe (era senz’altro un parente o un amico dei malati che avevo curato durante il giorno) e gridò: “Ecco il medico! Ma arriva troppo tardi…”. “Che succede?”, domandai, spaventato da quelle parole. “E’ nato il Messia”, mi risposero. Mi feci largo tra i corpi inginocchiati e lo vidi. Adagiato nella mangiatoia della stalla, scavata sul fianco della collina, stava dormendo. Sua madre – capisci, sua madre, perché il Messia è nato da una donna come tutti i figli degli uomini – giaceva sulla paglia, sfinita dal parto, che doveva essere avvenuto un’ora prima del mio arrivo. Si sentiva il rumore di una catena che scorreva dentro un anello: un asino la scuoteva di tanto in tanto, nel piegare o sollevare la testa. E si sentiva anche quel rumore che fanno gli animali quando ruminano e che somiglia al suono delle fusa di un gatto”.

Il medico è giunto tardi, ma non al punto da non incrociare gli occhi del neonato, vera esperienza che lo ha trascinato in una tempesta di emozioni dalla quale mai più si è ripreso del tutto: “In quel momento, il bambino aprì gli occhi e mi guardò. I suoi occhi vedevano già, lo giuro, mi guardò con occhi pieni di gratitudine, sì, lo giuro, come se fosse stato un adulto, consapevole di ciò che faceva. E la pace che invadeva quel luogo mi prese l’anima. Mi inginocchiai piangendo di gioia, la fronte appoggiata al ventre caldo e palpitante di una di quelle bestie che ruminavano guardando il Messia”. Il disagio di Teodoro si ricava anche nel ricorso continuo al giuramento, per sottolineare come il suo interlocutore dovesse credere in quello che era incredibile. “Come spiegarti quel che provai allora? Una gioia mista a un timore indicibile. Perché un bambino, un essere così fragile e delicato? E perché quella stalla, quei buoi, quei poveri pastori? Perché Dio aveva scelto  proprio questo luogo e questa povertà per mostrarsi agli uomini? Qualcosa in me si opponeva alla semplicità del miracolo”.

Non meno emotiva è la reazione dell’Ovidio che immagina Vintila Horia in questo “Dio è nato in esilio”(CASTELVECCHI, 2014 (ristampa) pagg 1-223): “Teodoro tacque. Mi guardò: battevo i denti, la mascella era scossa dalla febbre. “Che hai? Stai male?” “Non voglio morire. Non voglio morire…” Insistevo nel ripetere quelle stupide parole e non trovavo altra risposta alla domanda del medico. Anch’io volevo sentire quella parola, volevo vedere il Messia e trovare, prima di morire, la risposta a tutti i miei dubbi. Dio si trovava già tra noi, e da un giorno all’altro avrebbe fatto sentire la sua voce. Tutto sarebbe stato ordinato secondo una legge nuova, tutto avrebbe avuto un senso, nella vita. Gli uomini avrebbero conosciuto la verità e perfino la morte sarebbe diventata una gioia. I Daci ne sapevano qualcosa, ma tutte le dottrine e ogni saggezza sarebbero state, da quel momento, soltanto ali senza vita. Era scesa la sera. Prima di andarmene, invitai Teodoro a pranzo. Scrivo queste righe e la mano mi trema ancora. Starò sveglio per tutta la notte. E se il Messia fosse a Tomi? Perché non a Kogaionon, o nella Radura del Melo? Forse per questo motivo il sacerdote daco mi aveva allontanato dalla Montagna Sacra. No. Dopo la morte di Erode è certamente tornato in Palestina dove ha avuto inizio il suo destino di uomo. Oppure farà sentire la sua voce a Roma, nel centro del mondo, dove nessuno lo aspetta, ma da dove la sua parola potrebbe riempire subito il mondo?”

Traspare l’emozione di sentirsi contemporanei di un uomo che è anche dio; certo una riflessione che è frutto della ipotesi fantasiosa di Horia, ma che segna il punto di arrivo spirituale di questa autobiografia, nelle prime pagine arricchita dello spunto più travolgente: “Non saprà che favore mi ha reso facendomi soffrire” scrive Ovidio di Augusto, l’imperatore che lo ha relegato ai confini del mondo romano e quindi del mondo conosciuto. Attraverso quella sofferenza, che è tipica di quanti subiscono un esilio (materiale o metaforico che si voglia intendere), toccato in sorte allo stesso Horia, Ovidio ha faticosamente percorso la sua via; e gli spunti di alta spiritualità, di profonda aspirazione alla giustizia contenuti nella sua opera più alta, le Metamorfosi, approdano al riconoscimento di quanto sia necessario un fatto rivoluzionario. Ed è un percorso lungo, intrapreso nella giovinezza e accantonato nel torpore della vita di successo in Roma: in quei giorni nei quali, sempre secondo Horia, Ovidio poco più che adolescente spaventava il fratello nelle strade che dai campi peligni portano a Sulmona, dove gli rivelava che gli dei non esistono.

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