UN CASO LETTERARIO NELLA PRESENTAZIONE DI UNA PREGEVOLE COLLANA DI VIAGGI IN ABRUZZO
6 AGOSTO 2023 – Un caso letterario in agosto; uno di quelli che occupano le pagine dei giornali per durare il tempo delle ferie. Oppure un caso giornalistico, che viene da lontano, da più di cent’anni, e che contiene una tematica inossidabile dal tempo, come un’onda che si ripropone con cadenza regolare, punto di contatto con luoghi e scenari da vacanze estive.
L’infaticabile dott.ssa Maria Pia Graziani ha suggerito a “Il Vaschione” di presentare in quel di Villetta Barrea, il 24 agosto, una nuova collana dell’Editrice Ianieri di scrittori che hanno visitato l’Abruzzo; o anche di giornalisti, che spesso sono embrioni di scrittori. Ed è l’occasione di presentare il formidabile “Una settimana in Abruzzo” di Ugo Ojetti, proprio su queste colonne citato più di dieci anni fa perchè parla delle tre finestre e delle tre porte più belle che da Firenze a Palermo si possono catalogare nel Quattrocento. Lo avevamo letto e inserito nella sezione “Visti dagli altri”.
Ojetti fu direttore del “Corriere della sera”: il suo giudizio intorno a Sulmona e all’arte di Sulmona è ancora più lusinghiero se lo si mette a confronto con quello che esprime su altre parti d’Abruzzo, dove trova sciatterie, decadenze, cimeli incustoditi o peggio che fossero incustoditi, personaggi che si sostituiscono alla cosa pubblica per dirigere i flussi turistici e culturali (eclatante quello che accadeva a San Clemente a Casauria). Per questo la “Settimana in Abruzzo” di Ojetti è da leggere anche oggi; per il suo contenuto e per la forma preziosa nella quale viene offerto, piccolo libro da portare come quelli che servivano ai viaggiatori cento anni fa, dalle dimensioni tascabili per una consultazione espressa.
Ma Ojetti era prima di tutto un direttore di giornale ed avrà vissuto nel profondo il tema della precisione delle notizie: la diffusione della informazione cronicistica, da elaborare e stampare in dodici ore e l’aspirazione a rendere edotto il lettore senza doverci tornare sopra per correggere, semmai per rafforzare, riportando echi degli “scoop”. Non c’è nulla da precisare nel suo elogio delle finestre dell’Annunziata e di quasi tutto il resto in questo taccuino dotto.
Tuttavia in due punti la penna è sfuggita anche al principe dei direttori di giornale del Novecento. Scrive di Manfredi Hohenstaufen, figlio di Federico II di Svevia stupor mundi. E ne scrive come del padre di Corradino, quando tratta della battaglia dei Campi Palentini, volgarmente nota come la battaglia di Tagliacozzo. Padre del giovinetto che aveva già quasi vinto tanto che le sue truppe si dettero alla pazza gioia credendo morto l’antagonista Carlo d’Angiò.
Corradino era, invece, figlio di Corrado IV, titolare del Regno di Sicilia, che a sua volta era fratello di Manfredi e a lui premorto. Fonti storiche narrano che Manfredi di Hohenstaufen tenne il Regno di Sicilia diffondendo la voce che Corradino fosse morto già molto prima di quel 1268 e potrebbe essere questo uno degli “orribili peccati” dei quali si riconosce autore quando parla con Dante Alighieri nel Purgatorio.
Ma proprio quelle terzine ci rimandano l’immagine di un Re Manfredi che ha a cuore il diritto di rettifica, al punto che prega Dante, anzi lo implora, di dire “il vero” a sua bella figlia, “s’altro si dice“. La gravità dei suoi “peccati” non gli inibisce il diritto a partecipare alla scrittura della storia, quasi un anticipo di quella che la giurisprudenza dell’inizio del terzo millennio designerà come “versione dei fatti a formazione partecipata“, non più soltanto del giornalista. Egli ha subìto la misura selvaggia del disseppellimento, così che le sue membra adesso sono battute dal vento e bagnate dalla pioggia. Usa proprio queste figure, che dovrebbero rimpicciolire l’immagine del “pastor di Cosenza”: il vescovo Pignatelli che ordinò la barbara esecuzione di un rito latamente attribuito alla necessità che, da scomunicato, Manfredi non potesse riposare su suolo consacrato. E tale era il suolo nel quale, da valoroso guerriero colpito a morte in battaglia a soli trentatrè anni, era stato oggetto degli onori militari e sul quale gli stessi nemici avevano poggiato un tumulo di pietre, ognuna portata da una mano tributante gli onori. Manfredi, per tener fede all’impegno dell’ultimo istante della sua vita, quello di tornare al Padre per chiedere perdono degli “orribili peccati” previo perdono per tutti quelli che aveva subito, non lancia parole di condanna o di sfida, neanche contro il “pastor di Cosenza” e il papa che lo avrebbe guidato a un gesto così odioso (peraltro replicato più volte in ambito ecclesiastico e per giunta nei confronti di papi che furono disseppelliti per essere buttati nel Tevere). Eppure in questa riconciliazione con lo Spirito e nell’attesa di transitare dal Purgatorio, Manfredi chiede di ristabilire il vero. Dunque, esprime una necessità che supera anche il desiderio di vendetta; che, in sostanza, non è elisa neppure nella serena consapevolezze del destino che si è compiuto e che sta per giungere al perfezionamento definitivo.
E’, quella di Manfredi, un’anima del Purgatorio che esercita il diritto di rettifica.
Per questo abbiamo invitato, alla presentazione di quel resoconto di viaggio scritto da un grande direttore, il Presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Stefano Pallotta, e un giornalista del giornale che fu di Ojetti, Giuseppe Guastella (“che carriera ha fatto nel Corriere della Sera“, direbbe Ennio Flaiano). Entrambi hanno accolto l’invito, perchè il “dichi il vero” è l’auspicio del lettore o del personaggio politico o dell’attore o del quisque de populo assorbito e sballottato dal ciclone della informazione di massa; talvolta é l’ordine del giudice, soprattutto in questo mezzo secolo nel quale la regolamentazione dell’istituto della rettifica si è andata conformando in modo più penetrante, certamente non per soddisfare la richiesta di un padre che ottocento anni fa moriva con il cruccio che alla “bella figlia” potessero giungere voci malevole come quelle che egli aveva dovuto combattere durante una vita (talvolta alimentandole…), ma per evitare che uno strumento così potente, come quello della stampa, colpisca senza limiti e giunga a profanare la memoria come e più di un papa partigiano e immerso nella lotta politica, che, invece della verità, dissotterrava i cadaveri: anche quello di chi, nell’ultimo istante concessogli dal Padre, si era a Lui rivolto (“riedi” dice Manfredi, con tutto quello che conseguiva per sé e per la sua stirpe).