LA AUTOBIOGRAFIA DI OVIDIO SCRITTA DA VINTILA HORIA
12 APRILE 2016 – Il giorno della sua morte è sconosciuto; come il luogo, se non approssimativamente, vicino alla città di Tomi.
Publio Ovidio Nasone nacque a Sulmona il 20 marzo del 43 avanti Cristo e morì a Tomi nel 17 dopo Cristo (secondo alcuni nel 18). Alla Tomi di oggi, Costanza sul Mar Nero, si riporta la data del I gennaio del 17: questo almeno si legge nell’Università che a lui è dedicata, come a lui sono dedicati i nomi di mille o un milione di rumeni, di tutte le età, di tutte le parti del Paese.
Vogliamo, per questo, iniziare un percorso di letture della relegazione del Sulmonese; forse l’ultima pagina ci porterà, completando le letture, al giorno nel quale la mente eccelsa del vate smise di ricordare gli esametri gloriosi delle Metamorfosi, le elegie rinnegate delle opere amorose; giungeremo, duemila anni dopo, al momento nel quale cessò il felice rapporto tra lui e la metrica, che gli aveva fatto dire che quello che egli pensava e gli usciva di bocca diventava già un verso; al momento nel quale Roma non gli apparve più come la mèta di un possibile ritorno, che aveva continuato ad invocare anche dopo che si era interrotto il rapporto tortuoso con l’Imperatore Augusto che aveva firmato personalmente il decreto della relegazione.
Questa pagine che riproponiamo sono state già scritte, ma non da Ovidio. Sono l’eccezionale lascito di un letterato che di Ovidio subì il fascino al punto da scriverne una autobiografia simulata, intensa come quella che Yourcenar scrisse per Adriano. Sono umanisti che scrivono giudicando i padroni assoluti del mondo, con il filtro del sentimento e non dei risultati raggiunti. Il testo che riproduciamo è quello di Vintila Horia, rumeno, che nel suo “Dio è nato in esilio” ha affrontato la più grande metamorfosi di un uomo: quella spirituale e religiosa. Qualche cenno biografico ci trasmette il vero nome dell’autore di questo “Dio è nato in esilio”, come di “La settima lettera”, o “Il cavaliere della rassegnazione”: Vintila Caftangioglu, nato a Segarcea nel 1915 e morto a Collado Villalba nel 1992. Dal 1936 è collaboratore della rivista “Gandirea”, diretta dal filosofo Nichifor Crainic. Nel 1940 diventa addetto stampa dell’Ambasciata romena in Italia e dal 1942 al 1944 ricopre la stessa funzione a Vienna. Arrestato alla fine della guerra, si trasferisce in Italia, dove stringe una salda amicizia con Giovanni Papini. Nel 1946 il Tribunale del Popolo di Bucarest lo condanna in contumacia ai lavori forzati, con l’accusa di collaborazionismo: diventa esule, prima in Argentina, poi in Francia e a Madrid.
E l’avventura di Ovidio a Tomi, secondo Horia, si avvìa proprio dal contrasto dell’esule con il suo imperatore (cui accenna solo un un “lui”, come con un “lei” vuole rappresentare la Livia, moglie di Augusto, che sarebbe stato il vero motore della relegazione):
“Chiudo gli occhi per vivere. Per uccidere, anche. In questo sono il più forte: lui chiude gli occhi soltanto per dormire e nemmeno il sonno gli dà conforto. Le sue tenebre pullulano di morti, di crudeltà che lo ossessionano. Io so che a lui non piace il riposo, con la sua coscienza e i suoi rimorsi, col rimpianto di avere agito sempre da potente, da uomo terrorizzato dal proprio potere. Una volta, cinque anni or sono, lo incontrai al tempio, di mattina, appena sveglio. Aveva gli occhi rossi, gondi di stanchezza e non aveva il coraggio di guardarci, per paura che si potessero decifrare nel suo sguardo il nome o i tratti di coloro che lo avevano tormentato durante la notte. E’ adorato come un dio, ma nessuno lo ama. Infatti, è l’autore della Pace universale e ha creato il più grandi impero di tutti i tempi, ma è anche l’autore della Paura, la paura degli altri e la sua”.
Nel risvolto di copertina di una bella edizione curata da Castelvecchi (2015, pagg. 1-234, euro 17,50; attualmente disponibile a Sulmona presso “Susilibri” in Via Mazara), si osserva che “Attraverso la figura di Ovidio – diviso tra la disillusione e il sarcasmo, il desiderio e la poesia – Vintila Horia tanta di elaborare l’angoscia dell’esilio a cui lo aveva costretto il regime comunista in Romania. L’intreccio di esperienza personale e dimensione letteraria rendono Dio è nato in esilio un’opera in cui la scrittura diventa testimonianza, il lirismo denuncia politica e la singolarità di un’esistenza storica assume un significato universale”
Ma il disagio di Augusto non è inferiore a quello di Ovidio, dell’esule per antonomasia: “La tempesta di neve scuote il tetto. Il mare geme in lontananza e, nella notte, le sue onde si trasformano in lunghi fantasmi di ghiaccio. Domani la gente potrà camminare sopra i pesci e qualche vicino, più robusto di me, dovrà aprire un passaggio fino alla mia porta, attraverso lo spessore della neve, perché io possa uscire. Non ho mai sentito un urlo come questo, accompagnato dallo scricchiolio della neve ghiacciata all’esterno dei muri. Oltre questo acuto grido che si abbatte su di me come un’onda, il gemito del mare sembra il suono stesso della notte, come se il tempo avesse una voce e la facesse udire in un punto solo della terra: qui. La mia casa è quasi addossata ai bastioni della città, e quando il vento si calma sento l’ululare dei lupi fuori dalle mura. Hanno fame. Ne è stato ucciso uno in strada, oggi pomeriggio. Sconvolta dalla fame, la bestia si era lanciata verso la città, gettandosi sulla prima persona incontrata, una vecchia di ritorno dal mercato, e sbranandola in un batter d’occhio. Sono corso anch’io alle grida della gente e ho avuto il tempo di vedere il lupo, trafitto da una lancia, giacere sopra la sua vittima sulla neve insanguinata. Ho pensato subito a lei. Non ho potuto fare a meno di augurarle la stessa sorte, che sfortunatamente, è impossibile: i lupi non arrivano mai a Roma. Ma una notte un lupo potrebbe sfuggire ai bestiari, penetrare nel giardino del palazzo imperiale e fare quel che fino ad oggi nessun uomo ha avuto il coraggio di fare…
Chiudo gli occhi e uccido. Queste scene sono presenti, più vive e più chiare del ricordo di oggi! Chiudo gli occhi e vedo. Sono poeta. Lui è solo imperatore”.
Altre pagine bellissime riguardano, proprio all’inizio di questa autobiografia, l’episodio che Horia immagina accaduto alle porte di Sulmona, tra il poeta e il fratello, per il quale rimandiamo al brano pubblicato tra i primi di questo sito internet.