“GARBATA” RISPOSTA DOPO I MORTAI DEL FUOCO AMICO
Dal sig. Pasquale D’Alberto, che torna a firmarsi “operatore culturale”, riceviamo questa replica all’articolo “Se l’operatore è poco operativo”:
Signor direttore correttezza vorrebbe che, quando si discute di un argomento, ci si astenesse da attacchi personali. Come ho fatto io che ho citato il nome dell’autore della denuncia per il “fatto delle coroncina di aglio sulla statua di Ovidio” solo perchè è un fatto di cronaca.Ma tant’è. Prendo atto dallo stile della risposta.Tutto quanto esula dal fatto in sè non mi adonta più di tanto, anche perchè per il periodo al quale l’estensore della risposta si riferisce parlano i fatti… Spesso i contributi migliori vengono dai “grigi burocrati portatori di una noia mortale”.In quanto alla vicenda in sè, quella della croncina di aglio, la voglio chiudere in poche righe.Credo che faccia parte delle abitudini di una certa società sulmonese, intellettuale e non, quella di considerare episodi non cero epocali come portatori di chissà quali significati reconditi.Ecco, torno a ripeterlo… Se Ovidio fosse stato presente all’episodio oggetto della denuncia, magari ci avrebbe scritto su una bella poesia, con lo stesso spirito di tanti suoi versi, colmi di ironia. Come quando, di fronte alle “busse” del padre che lo considerava un perdigiorno, scrive: “…tutto quello che usciva dalla mia bocca era poesia”.In quanto all’episodio della Columbia University, evidentemente chi risponde alle mie osservazioni ha informazioni più precise di quelle della stampa nazionale, compresi i corrispondenti dagli Stati Uniti di autorevoli quotidiani, che ne hanno riferito in termini non esattamente simili a quelli della sua preastigiosa rivista.Torno a ripeterlo: in quella occasione il mondo della intellettualità sulmonese ha perso una occasione irripetibile per inserirsi in un dibattito nazionale.Tranne per “Il vascione”, naturalmente….Grazie dell’attenzione
E sapete come è intitolata questa replica? “Garbata risposta”; segno che l’autore si è convertito a toni diversi da quelli usati nella lettera non richiesta e non seguita da commento alcuno nel sito nel quale fu pubblicata. Lì tacciava la “querelle” sull’aglio come l’argomento che sarebbe passato alla storia della città per il pettegolezzo per eccellenza (e, dunque, ricorreva alla spranga dell’insulto gratuito); spiegava, con i ceffoni che si davano una volta a scolari sciatti, che cosa volesse dire Ovidio nei suoi esametri, dopo duemila anni di interpretazioni di altri “operatori culturali”, tra i quali uno che si chiamava Dante Alighieri, un altro Boccaccio, un altro Leonardo da Vinci e, tra i più recenti, un altro lo chiamavano Poliziano; discettava di cosa dovesse sostenere un dibattito e di cosa dovesse essere escluso.
Pretende ora di andare alla guerra e scegliere le armi dell’avversario; vorrebbe passare dal mortaio (non tarato e quindi, come ha insegnato Venafro, puntato dalle truppe alleate che sparavano sugli stessi anglo-americani per poi riempire il cimitero di guerra, esempio ancora più struggente della stupidità della guerra) al fioretto, come avrebbero voluto i soldati che, respinti in un attacco sferrato in grandi forze, tornavano nelle retrovie piagnucolando “Oh! Quelli sparano…”.
Ma poi, che c’entrano le “busse” del padre di Ovidio? Ma dove sta scritto che Ovidio aveva sempre lo spirito ironico? Le melense immagini di un Ovidio sempre paziente e sempre ironico possono essere tratteggiate solo da chi non lo ha letto (e tra questi abbiamo ricompreso pure il tanto e per tanto breve tempo osannato Moccia). Basta dare un’occhiata all’Ibis, che non è solo un uccello, ma una raccolta di invettive di Ovidio, per sapere cosa avrebbe detto di chi gli avesse messo l’aglio in testa. Certo non si sarebbe rivolto così a Fabio Spinosa Pingue o a Pasquale D’Alberto o a Franco Pingue, perchè gli avversari se li sceglieva tra quelli che stavano alla corte di Augusto; ma la figura di un Ovidio il buono è un altro spicchio di aglio sulla testa di un grande poeta, sfigurato e degradato a testimonial di campagne di vendita.
Se Ovidio si fosse visto allo specchio con una corona d’aglio, non avrebbe attinto agli “Amores”, ma certo all'”Ibis”:
“Finchè vita mi resti, tra noi due ci sarà la stessa pace
che è solita tra i lupi e il timido gregge.
Io ti darò battaglia col verso che ho adottato, anche se è vero
che con questa cadenza non si usa fare guerra,
ma come del soldato non eccitato ancora va la lancia
dapprima al suolo pieno di biondeggiante arena,
così io non ancora ti colpirò con l’affilato ferro, e l’asta
non punterà da subito alla tua testa odiosa,
né in questo mio libello dirò quello che hai fatto e il tuo nome,
lascerò che per poco tu nasconda chi sei.
Più tardi, se ti ostini, il mio intrepido giambo invierà frecce
contro di te, intrise del sangue di Licambe”
E certamente, per quanto preveggente, quando parlava di gregge, non si riferiva a quelli di Pingue, perchè del nemico irrecuperabile, tratteggiato nell’Ibis, non faceva il nome, forse per non consentirgli di passare, tramite la sua poesia, ai lidi dell’immortalità.
Se questo “operatore culturale” avesse più cultura e più operatività, si sarebbe avveduto che quando Ovidio si imbestialiva non andava per il sottile:
“Tra gli applausi del popolo sarai dal boia trascinato e infisso
nelle ossa avrai un uncino. Le fiamme,
che afferrano ogni cosa, ti fuggiranno e, giusta, la terra
respingerà il tuo cadavere odioso
con le unghie e col becco, lento ti aprirà i fianchi l’avvoltoio,
sbraneranno il tuo perfido cuore avidi cani”
Per chi vuol leggere di più di queste gagliarde immagini di Ovidio, rimandiamo alla sezione POESIA di questo sito.
Posto, dunque, che la compiaciuta irononia Ovidio la riservava a cose che lo riguardavano marginalmente; posto che la bonomia del poeta peligno è una pallonata coltivata da chi non lo conosce; considerato, del resto, che noi abbiamo letto e riletto anche l'”Ibis” e relativi commenti per conoscere meglio il Sulmonese, rivendichiamo certamente il ruolo di quella che D’Alberto definisce la “intellettualità sulmonese”, se del caso anche spocchiosa, ma che esiste e va preservata dall’aglio come simbolo di omaggio accademico; rivendichiamo il ruolo di chi, da intellettuale rivolgendosi ad altri intellettuali della Regione (ma di primo piano, non a Unidentified Flying Object (UFO) “operatori culturali”), cerca di evitare che Ovidio venga offeso e che il suo destino sia quello di sostenere una campagna di vendita previa la deturpazione del suo stesso essere e chiarissima è stata la risposta della dott.ssa Lucia Arbace, massima autorità della cultura abruzzese, quale direttrice del “Polo museale” del Ministero della Cultura, al cui oggettivo responso continua a non inchinarsi Fabio Spinosa Pingue. Ma, più semplicemente da cittadini e intellettuali sulmonesi, non consentiamo che una statua di Ovidio nel cuore della città rechi una corona d’aglio.
Non abbiamo chiesto il parere di D’Alberto o di Pingue: abbiamo chiesto il parere, vincolante per tutti in uno Stato che rispetti le regole, del giudice, esercitando il massimo delle nostre prerogative di uomini dotati di facoltà e diritti. Il “dibattito” D’Alberto se lo tenga per sè e se lo rimpinzi dei contenuti che, come tutti i dibattiti del Pci, erano preconfezionati. Se vuole, si costituisca in giudizio e dica le sue ragioni; il suo co-belligerante Franco Pingue (“uscito” nelle stesse ore per suonare la grancassa contro “Il Vaschione”), convinto di perdere con gli argomenti che porta, ha preteso che a costituirsi contro l’emanazione dell’ordine del giudice sia il sindaco di Sulmona, che già deve fronteggiare tante cause perse.
Se una città sopporta che venga messa una corona d’aglio sulla testa dell’unico suo cittadino che si conosce in tutto il mondo e ne vuol formare oggetto di un simbolo (come si ravvisa anche nel sito di Fabio Spinosa Pingue, secondo quanto ci è apparso nei giorni scorsi ed esporremo al giudice quando fisserà l’udienza) non subisce l’onta di un giorno, ma spezza lo stesso rapporto di filiale rispetto che deve al suo Ovidio. Come in una canzone di Ligabue, ci chiediamo se per reagire bisogna aspettare che l’offesa diventi sacrilegio (“Ce lo dite cosa fate a chi piscia nel vostro più bel cimitero?”).