SE OVIDIO TENDESSE L’ORECCHIO SENTIREBBE SOLTANTO LA LINGUA RUMENA

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CURIOSA COINCIDENZA DOPO DUEMILA ANNI

10 LUGLIO 2016 – Parlammo di “solitudine di Ovidio”, dopo aver visto (e filmato) la statua del poeta in una serata di autunno avanzato. Erano i primi tempi che Piazza XX Settembre aveva perso il ruolo di ombelico della città, con una isola pedonale rispettata al minuto secondo per via delle telecamere. La statua del Ferrari stava sola: non c’erano i gruppi di frequentatori, neppure un tavolino di bar occupato.

Ora Ovidio non è più solo, almeno la domenica mattina, anche presto, quando il “Gran Caffè” si anima di lavoratori in relax per il giorno festivo. E sono tutti rumeni, almeno in questo inizio di estate.

Succede a Ovidio, duemila anni dopo, di trovarsi ancora a sentire solo la lingua rumena, che peraltro non disprezzava e che con il suo metodo di intellettuale cercò di comprendere nell’etimo come nel suono, difficile. Gli apparve desolato il luogo della relegazione a Tomi; soffrì perché il suo latino perfetto, quello che gli consentiva di giocare con gli esametri e che già gli faceva esprimere in versi quello che scriveva, non era, nel Ponto Eusino, simbolo di potere e di identificazione. Cercò di spiegare la lingua di Roma ai rumeni e probabilmente scrisse anche qualcosa nella lingua del delta del Danubio, anche quando era terrorizzato dalle scorribande dei barbari che premevano ad una assai labile frontiera. Ma dopo duemila anni, se la sua statua avesse la dote di trasmettergli una lingua, sarebbe ancora soltanto una lingua rumena, parlata dai tanti che in Romania come ora in Italia si chiamano Ovidiu.

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