ERA IL CAOS DELLE PASSIONI CHE AUGUSTO NON SOPPORTAVA IN OVIDIO

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SI TORNA OGNI TANTO NELLA GIUSTA ORBITA DELLA RICERCA NELLE METAMORFOSI

15 GIUGNO 2017 – Come l’orbita di un pianeta lontano, la ricerca del motivo della relegazione di Ovidio ogni tanto si avvicina alla luce della verità; poi torna a perdersi in mille congetture. E del resto questo volle il Poeta quando preferì (o dovette?) non esser chiaro sulla “colpa che va tenuta in silenzio”.

Oggi, nel rinnovato auditorium dell’Annunziata, Arturo De Vivo ha parlato ancora, con argomenti nuovi e da lui sempre resi con fascino e capacità di attirare gli ascoltatori, del nodo che imprigionò Publio Ovidio Nasone alla sua “colpa” e al silenzio che doveva serbare. Canti licenziosi ? Forse no. Visione della vita e, quindi, dell’Impero come un continuo divenire ? Forse sì. Dissacrazione dei miti? Fuocherello. Caos invece della regola di Augusto per un potere infinito nel tempo e nello spazio? Fuoco, fuoco.

Poi, magari, il mistero non si risolverà mai perché troppo pochi sono gli elementi che il Sulmonese ci ha lasciati e perché troppo fantasiose sono le elucubrazioni che si tessono da duemila anni con la stessa credibilità che l’una ha rispetto all’altra. Ma, intanto, è salutare parlarne, non solo perché è il Bimillenario, quanto perché De Vivo e, con lui, molti altri autorevoli studiosi, aggiungono, ogni volta che ne parlano, un particolare che magari era sfuggito e che ricompone il grande, immenso quadro della Romanità, fino a farci pensare che è ancora tutto in funzione quell’Impero; che sono ancora tutte in evoluzione le forze che lo sorressero; che i Romani di allora sono come i cittadini del mondo di adesso, bisognosi di qualcosa che venga a rendere meno prosaica la realtà, per perdersi nella favola e consolarsi in essa.

Per esempio, come poteva Augusto non mandare agli estremi confini del mondo conosciuto un autore che quasi ridicolizzava Giove assorto e catturato dalle sue passioni amorose ? Il nume per antonomasia poteva correre, innamorato, dietro alle ninfe e mostrare il lato debole della sua autorità ? E poteva mortificarsi (“con una visione borghese”, ha detto De Vivo, riprendendo temi a noi vicini e a Ovidio lontanissimi) davanti ad una moglie che scopriva i tradimenti e puniva, spesso goffamente, i partners del più grande tra gli dei ? Poteva una mitologia ridursi ai bisticci di Casa Vianello? Ecco, forse questo è stato il grave errore di Ovidio: quello di aver fatto prevalere la passione rispetto alla regola. Ma non una passione qualsiasi: quella intesa come dirompente energia che crea il caos, dal quale i Romani si erano sollevati con la perfetta architettura del loro sistema giuridico, delle loro costruzioni che hanno sfidato le leggi della gravitazione e nel quale, peraltro, sarebbero finiti di nuovo pur senza che Ovidio ne avesse colpa. Come non ebbero colpa le Mura aureliane quando i barbari entrarono nell’Urbe.

Affascinante, dunque, parlare dell’error, fin quasi ad avvicinarsi, nel percorso dell’orbita irregolare che questo processo di conoscenza segue da tempo, alla stella più grande fra tutte, quella che contiene la verità.

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