UN MANOSCRITTO INEDITO NELL’ UNIVERSITA’ DI YALE ESAMINATO DA VALTER MATTICOLI CONTIENE LE MUSICHE PER LE NOZZE DEL NIPOTE DI PAOLO V – E OGGI SARA’ ESEGUITO LO “STABAT MATER” DI BOCCHERINI NELLA EDIZIONE ORIGINALE DEL 1781 – SABATO DI SCENA VIVALDI CON IL MAESTRO PASQUALE VELENO
25 MARZO 2023 – Sabato prossimo Vivaldi sarà di scena nella chiesa dell’Annunziata nel “Concerto per la Settimana santa”: un evento gratuito che è stato possibile grazie al sistema delle donazioni del 5 x mille. Eseguiranno il “Coro della virgola” e l’orchestra da camera “Benedetto Marcello”, diretta da Pasquale Veleno. Oggi, sempre all’Annunziata, sarà eseguito lo “Stabat Mater” di Boccherini, nella versione originale del 1781 per soprano, sulla traccia dell’opera di Jacopone da Todi; secondo altra opinione, sarebbe ispirato ai versi di Papa Innocenzo XIII.

C’è nell’aria, all’Annunziata, l’eco della grande musica sacra e non è un caso che proprio in questi giorni Valter Matticoli abbia redatto l’articolo che riproduciamo integralmente e che ci riconduce all’altro, importante contributo del giovane sulmonese, artista e valente esecutore della musica classica. Tutto nel segno del rapporto tra la città e i suoi Principi
Nella Yale University Library di New Haven in Connecticut, (USA) è conservato un manoscritto musicale di Alessandro Capece un tempo appartenuto alla ricca collezione di Albrecht Gabriel Rosenthal. Il codice, composto di ventitrè pagine, misura cm 28 di altezza per 23 di larghezza e si presenta vergato in partitura e non diviso in singole parti secondo l’uso della pratica tardo cinquecentesca adottata dall’autore in altri suoi componimenti. La segnalazione del manoscritto, da parte del M° Angelo Fusacchia, ha suscitato nello scrivente un particolare interesse poiché, se trattasi dell’unico autografo esistente redatto dal compositore sabino negli anni della sua permanenza a Sulmona, ciò andrebbe ad aggiungere un ulteriore ed importante tassello alla storia musicale della città ovidiana.
Naturalmente è assai difficoltoso stabilire con precisione la data di stesura del manoscritto, tuttavia una indicazione temporale in tal senso la ricaviamo dallo stemma 1 araldico di unione matrimoniale tra Marcantonio II Borghese, principe di Sulmona e Maria Camilla Orsini, figlia di Virginio Orsini, duca di Bracciano, riportato sulla prima di copertina del volumetto. Officiate da Paolo V, zio di Marcantonio II Borghese, le nozze ebbero luogo in maniera sontuosa il venti ottobre del 1619 nella cappella Paolina del palazzo del Quirinale. Pertanto, a mio parere, il manoscritto in questione non potrebbe essere stato compilato prima della suddetta data, contrariamente a quanto indicato nella scheda bibliografica della Yale University, che riporta come arco temporale quello tra il 1617 e il 1624.
Nell’anno in cui venne celebrata l’unione matrimoniale, Alessandro Capece era stato prescelto dagli
amministratori della Casa Santa della SS. Annunziata di Sulmona quale maestro di cappella dell’omonima chiesa. Si potrebbe pertanto ipotizzare che il compositore taranese avesse redatto la partitura musicale con l’intento di omaggiare la giovane coppia di sposi. Lo stesso manoscritto reca infatti una dedica al principe di Sulmona in cui leggiamo:
All’Ill. mo et Ecc. mo Sig. re et Pron mio Col. mo / il Sig. r D. Marc. Antonio Borghese/ Principe di
Sulmona/ Fregio/ Devotissimo Servidore/Alessandro Capece./Fregio
Non sappiamo se tra dedicante e dedicatario intercorressero già all’epoca rapporti di mecenatismo, certo è che con la dedica posta in apertura della raccolta, se questi non erano già in atto, venivano da parte del compositore quanto meno auspicati. Non è questa la sede dove poter approfondire osservazioni riguardanti il mecenatismo artistico di una delle famiglie più importanti di Roma, tuttavia esempi di committenza e di consumo musicale da parte dei Borghese sono ampiamente documentati già a partire della prima metà del Seicento. Numerosi furono infatti compositori, cantanti e strumentisti che nel corso dei decenni prestarono servizio per la nobile famiglia romana, tra questi si ricordano i nomi di Bernardo Pasquini, Francesco Gasparini e Luigi Rossi solo per citarne alcuni. Una attività tutt’altro che occasionale che aveva luogo nel palazzo romano e nelle diverse residenze che i principi possedevano nei dintorni della capitale. Un esercizio che, come evidenziato da Claudio Annibali, può essere interpretato da un punto di vista storico-antropologico ovvero che «in campo musicale la committenza aulica ha per fine la produzione di eventi sonori che – al di là delle loro immediate funzioni edificanti, cerimoniali o ricreative – simbolizzano la collocazione sociale del committente» (2) . In altre parole tale esercizio, in quanto strettamente legato al mandatario, era espressione sonora del proprio potere politico e sociale.
In occasione dell’unione matrimoniale, numerosi furono gli scritti celebrativi apparsi in onore della giovane coppia, tra questi si ricorda l’Erotilla, dramma del poeta Giulio Strozzi, rappresentato a Roma proprio in occasione dei festeggiamenti nuziali (3).
Il manoscritto del Capece raccoglie tre dialoghi, con relativi duetti, un coro a quattro voci di ninfe e tritoni e un madrigale a voce sola. Tutti i testi poetici posti in musica dal compositore taranese sono di Giovan Battista Guarini. Tranne il madrigale Morte soccorsa, e il dialogo tra Fede e Speranza, posto nell’introduzione dell’opera l’Alceo Favola Pescatoria di Antonio Ongaro, i restanti versi sono tratti dagli intermezzi secondo e quarto della medesima favola, dedicata al cardinale Giacomo Serra legato apostolico di Ferrara.
Non a caso le scelte poetiche del Capece si orientano sui versi poetici del quarto intermezzo, proprio in quest’ultimo vengono infatti trattati temi sull’unione matrimoniale quali quelli «Della necessità naturale del Matrimonio», «Della necessità morale delle nozze» o ancora «Della necessità politica delle nozze». Vista l’importanza dei destinatari, quella del compositore sabino fu una scelta accuratamente ponderata, che confermerebbe la destinazione finale del suo lavoro.
Il brano di apertura è un dialogo tra le due virtù teologali della Fede (basso) e la Speranza (contralto) accompagnate da uno strumento in continuo. Poste dal poeta a guardia del tempio d’amore, queste simboleggiano i pilastri del rapporto amoroso. La prima è virtù imprescindibile se si vuole conquistare il cuore dell’amata, la seconda necessaria al mantenimento del sentimento amoroso.
Il testo del Guarini, ricco e descrittivo, si snoda per sei sestine aventi tutte lo schema metrico aBBaCC, una struttura con due rime ad andamento incrociato e con un distico finale. Se si osservano attentamente le scelte poetiche fatte dal Capece per la stesura del manoscritto, si noterà come egli prediliga componimenti strofici dalla struttura metrica aperta all’alternanza di versi settenari ed endecasillabi. Si osserva altresì come questi ultimi siano in molti casi prevalenti sui settenari, retaggio questo di una certa predisposizione da parte del nostro compositore alla discorsività. Il maestro taranese fa intonare la prima sestina al personaggio della Fede. I versi hanno carattere di presentazione e vengono declamati dalla voce con figurazioni brevi e vivaci, su un impianto ritmico dattilico che si ripete con una certa regolarità e a distanza ravvicinata. Sostenuto da un basso che funge da sostegno armonico, il canto segue un andamento prevalentemente di tipo sillabico con cadenze a fine verso, un procedimento formale tipico del periodo Barocco che vedeva nella monodia accompagnata un esempio ispirato ai supposti modelli greci. In tale orientamento, che vede privilegiare un tipo di scrittura omofonica rispetto al più densa scrittura contrappuntistica, non mancano però passaggi melodici che rivelano una certa attenzione alla rappresentazione sonora di alcune immagini verbali. Si noti al tal proposito l’andamento cromatico della voce sulla parola «pianti» e come questo riesca al meglio ad evidenziare lo stato d’animo, una “pittura sonora” che riconduce a una lettura madrigalistica della scrittura musicale.
Schernito e condannato al pianto dalla sua adorata, l’amante simboleggia la fede tradita, questa lo invita a non rassegnarsi e a non dubitare del suo potere divino, poiché ciò che l’uomo separa essa può unire. Non credendo a tale esortazione, interviene la Speranza che intona i versi: «Ma che? Voi non venite? Forse credenza il nostro dir non trova». Derise per il loro amoroso zelo, Fede e Speranza, lasciano la terra per ritornare in cielo intonando un duetto di congedo. Il componimento poetico si snoda in dieci versi settenari ed endecasillabi divisi in due quartine a rima alternata e doppio distico finale (aBAcBCdDeE).
Andiamo o sempiterne
Rote del Ciel, che con perpetui moti
fate le cose generate eterne,
e con vostri fatali
or tristi, or lieti influssi a voi sol noti,
reggete le Fortune de’ mortali;
date loco a chi torna
alla sua spera di cristallo adorna,
perché luce novella
ivi splenda a gli amanti amica stella.
La scrittura musicale, prevalentemente omoritmia, lascia spazio a brevi passaggi in imitazione tra le voci in corrispondenza dei versi finali, declamati su uno schema ritmico puntato e con cadenze a fine frase.
Inserito nel quarto intermezzo dell’opera dell’Ongaro, l’episodio che segue è tratto dal Guarini
dal celebre mito del ratto di Proserpina. Plutone, innamorato della figlia di Cerere, la rapisce per farla sua sposa e regina dell’Ade. Spettatrice e complice del sequestro da lei stessa ordito è Venere. Questa dopo una lunga controversia con Cinzia, la dea protettrice di Sparta e Cerere, ne esce gloriosa vincitrice.
Compiaciuta di se stessa, intona i versi:
Vieni del mondo ò domator Cupido,
con la schiera gentil di mille Amori.
Venite a far della gran Dea di Gnido
palesi al Mondo i trionfali onori.
Ergete un bel trofeo su questo Lido.
D’alme legate, e di trafitti cori,
Cantando, o Dea d’Amor bella, e vittrice
adorata sij tu, sempre felice.
La prima stanza si compone di due terzine in endecasillabi piani con andamento alternato e un distico finale. (ABA BAB CC). Con questo brano il Capece si confronta con la forma poetica dell’ottava rima, un metro narrativo più “grave” rispetto al duttile madrigale, che condiziona il compositore taranese anche sul piano delle scelte stilistiche musicali. Verso con cui il musicista sabino si misurerà qualche anno dopo in altri quattro madrigali: Mentre io vi adoro, Ma se vostro pur sono, Cosi m’ha fatto Amore e Ma se di posseder tutti realizzati su testi del Guarini, e pubblicati nel 1625 nel terzo libro dei madrigali a cinque voci. Tratti dal quarto intermezzo, i versi sono cantati su una melodica semplice e lineare caratterizzata da una certa reiterazione di alcune cellule ritmiche, e per una adeguata ricerca della giusta resa musicale degli “affetti”. Anche in questo caso le immagini evocate dal testo suggeriscono al compositore una adeguata rappresentazione sonora delle stesse. Si noti a tal proposito il verso “D’alme legate” reso musicalmente attraverso l’uso di una legatura di valore posta sopra tre note, un atteggiamento che denota da parte del musicista sabino un retaggio culturale di chiara matrice Rinascimentale. Sebbene la declamazione del testo è prevalentemente sillabica, a metà strada tra il recitativo e il cantato, non mancano passaggi melodici articolati, come il melisma posto in corrispondenza della parola “trionfali” prima della cadenza a fine verso.
Il dialogo che segue tra Venere e Arione, è inframmezzato da un coro di tritoni e ninfe dal carattere celebrativo:
Cantiamo, o Dea possente,
il nome tuo, che venerar n’insegna
la tua famosa, e vincitrice insegna.
Cantiamo, o Dea possente
la tua famosa, e vincitrice insegna.
Qui al coro è affidata la duplice funzione di commentatore e di spettatore privilegiato dell’azione, ne risulta pertanto un avvicendarsi di momenti drammatici a circostanze più liriche e riflessive: i primi riservati appunto al dialogo tra i due protagonisti, l’altro affidato all’insieme vocale. Il testo si compone di cinque versi con struttura metrica aBBaB. Il brano è composto per un insieme vocale dalla tessitura acuta (C1,C2, A e T) la cui scrittura, prevalentemente omoritmia, lascia spazio a passaggi in imitazione tra le voci. Questi ultimi si incontrano in modo particolare in corrispondenza dei versi “la tua famosa e vincitrice insegna”, i cui moduli ritmici sono rintracciabili nelle parti solistiche dei personaggi di Venere e Arione.
Ad elogiare il potere divino della Dea di Cnido, simbolo stesso della forza di eros, capace di infondere il desiderio amoroso in ogni creatura mortale e di natura divina, è il testo intonato dal citaredo di Metimna. Questo si compone di otto versi dalla struttura metrica aperta, dove settenari ed endecasillabi si alternano su tre rime: la prima baciata e le successive a rime alternate con un distico finale (aaBcBcFF).
In cielo hai vinto Giove
cangiato in forme nuove.
Nettuno in mare. Ogni mortale in terra.
Mancava alla tua gloria,
chi si sentisse il tuo valor sotterra;
O solenne Vittoria,
chi ti può contrastar, s’anco chi cede
lò’nvitto Rè della tartarea sede?
La linea melodica segue l’accento naturale del verso con microstrutture ritmiche che si ripetono con una certa regolarità. Laddove ci sono espressioni verbali da esaltare musicalmente, il nostro compositore ricorre a quelle tecniche di scrittura finalizzate a lumeggiare il significato del testo poetico. Nel componimento trovano infatti ampio spazio l’uso figure retorico-musicali, come ad esempio la catábasi evocata dal verso “Chi si sentisse il tuo valor sotterra” dove l’immagine della profondità è resa musicalmente attraverso l’uso di una scala discendente posta in corrispondenza della parola “sotterra”, un altro esempio di raffinata interpretazione del testo poetico, che si concretizza attraverso scelte compositive i cui tratti rivelano un atteggiamento apertamente madrigalistico.
Il dialogo successivo tra Armida e il condottiero Rinaldo è ispirato ai due protagonisti della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso. Fatto prigioniero da Armida, Rinaldo viene condotto dalla maga a bordo del suo carro sopra un monte sul quale si erge un sontuoso palazzo. Invaghitasi del condottiero, Armida intona la prima parte del testo che si compone di dodici versi quasi tutti endecasillabi (aBcC DeEE fe HH) con un distico finale. Lungo quasi come un sonetto, ha il tratto distintivo di un dialogo interiore fatto frasi interrogative e stati d’animo contrastanti.
O fortunata Armida,
chi fece mai di me preda più cara?
O bellezza infinita,
io venni a ferirti, e m’hai ferita?
Or le ferite son baci amorosi.
O bellezza possente
tu molle hai fatto il cor che era diamante,
e di nemica ti son fatta amante.
Ma voi spirti d’Averno
fattemi su quel monte
un Pallagio real, degno ricetto
del mio ben, del mio cor, del mio diletto.
Profili ritmici vivaci si ripetono per tutta la durata del brano, assecondando la declamazione sillabica del testo poetico, dando luogo a un’anafora in corrispondenza dei versi «O bellezza infinita» «O bellezza possente». Sostenuta dallo strumento in continuo, la linea melodica si muove prevalentemente per grado congiunto e nell’ambito di una tessitura semplice e naturale che non oltrepassa l’intervallo di decima.
Risvegliatosi dall’incantesimo, il paladino Rinaldo, frastornato da tanta bellezza intorno a sé,
intona due endecasillabi interrogativi:
Chi m’ha qui tratto? Ove son io? Che veggio?
Dormo ancor? son io desto? o pur vaneggio?
Alle domande risponde Armida rassicurando il cavaliere:
Non temer Cavaliere
che quì per felicissimo destino
condur ti fece alto voler divino.
Udita la voce, Rinaldo si volta a rimirare il volto dell’astuta maga chiedendo:
Chi sé tu Donna, o Dea,
che mortal cosa alla beltà non sembri?
Temendo di perderlo, poiché non ancora condotto all’interno delle mura incantate del palazzo,
Armida astutamente replica con una menzogna, facendo credere al paladino che ella è la gloria da lui
avidamente cercata.
Io son la Gloria, quella
da te cotanto amata
quì regno, e la mercede
del tuo valor nelle mie braccia avrai.
Tu sol signor del mio regno sarai.
Anche in questo breve dialogo si riscontrano fattezze musicali già incontrate precedentemente, come ad
esempio l’andamento prevalentemente sillabico. Non mancano altresì, brevi melismi posti poco prima della
cadenza a fine verso, finalizzati ad enfatizzare alcune espressioni verbali contenute nel testo.
Ormai vittima delle lusinghe amorose della maga, Rinaldo, incredulo davanti a tanta bellezza, intona insieme ad Armida un duetto dal carattere idilliaco. Il componimento poetico si compone di nove versi in prevalenza endecasillabi dallo schema metrico aBBcDcdEE.
O de teneri Amori
bella madre, e cortese, ascolta i voti
di due cupidi amanti a te divoti.
Stringine Dea possente,
come sua cara preda Aquila suole.
E chi di noi si pente,
e l’nodo allentar vuole,
rompa del viver suo prima lo stame
che questo soavissimo legame.
Sebbene prevalga un trattamento omoritmico del testo, non mancano in questo duetto brevi passaggi sonori in imitazione, in particolar modo in corrispondenza dei versi «come sua cara preda Aquila suole» e «che questo soavissimo legame». A garantire una certa unità formale della composizione, concorre in qualche misura la reiterazione stereotipata di alcune formule ritmiche binarie. Queste cedono il passo a una figurazione ternaria sul verso «Stringine Dea possente» scansione che, sebbene momentanea, provoca all’ascolto una contrazione del regolare andamento metrico, esaltando musicalmente l’immagine verbale espressa nel verso.
Chiude la raccolta il madrigale a voce sola Morte soccorsa, tratto dalle Rime del Molto Illustre Cavaliere Battista Guarini, pubblicate nel 1608 a Venezia per i tipi della stamperia di Giovanni Battista Ciotti. Il componimento poetico ha carattere descrittivo e si articola in undici versi in maggioranza settenari aventi lo schema metrico abBCDceeDeE. Al suo interno trova largo impiego l’ingegnoso mondo delle figure retoriche come sinonimi e schemi poliptotici («more», «ultim’hore» «anima» «alma» «bella» «gradita», «langue» «languire») che il compositore valorizza con adeguate scelte musicali.
Era l’anima mia
già presso l’ultm’hore,
e languia come langue alma che more
quand’anima più bella, e più gradita
volse lo sguardo in si pietoso giro
che mi ritenne in vita.
Parean dir que’ bei lumi,
“Deh, perché ti consumi?
Non m’è si caro il cor, ond’io respiro,
come se tu, cor mio;
se mori, ohimè, non mori tu, mor’io”.
Una pathopoeia affidata alla voce superiore conferisce alla linea melodica un carattere languoroso, che
contribuisce ad una efficace resa espressiva del testo poetico. Al giungere del verso “quand’anima più bella, e più gradita” figurazioni ritmiche puntate e di breve durata predispongono l’ascoltatore ad uno stato d’animo più sereno. La declamazione dei versi è di tipo sillabico, si muove prevalentemente per gradi congiunti e sostenuta da note tenute dello strumento in continuo.

La struttura metrica del madrigale, dalla natura meno vincolante sia nelle componenti ritmiche e periodiche, sembra essere la forma poetica preferita dal maestro taranese. Le scelte poetiche adottate dal Capece per la stesura del suo componimento, sono espressione di un gusto e di una tendenza stilistica allora dominante, che vedeva nelle opere del Guarini, una fonte di ispirazione per molti compositori coevi. Nella struttura metrica del madrigale si possono infatti rintracciare le tendenze formali della produzione artistica di quegli anni. Se il Capece aveva trovato nel testo guariniano più di una situazione emotiva da esprime in musica, tra il 1600 e il 1616, solo qualche anno prima della stesura del manoscritto sulmonese, avevano rivestito di note i versi del poeta ferrarese Claudio Monteverdi, Antonio Cifra, Benedetto Pallavicino, Enrico Radesca e Alfonso Fontanelli.
Non sappiamo se prima di questa raccolta il maestro sabino ebbe modo di misurarsi con la poesia lirica
del Guarini; se così fosse, essa rappresenterebbe il primo esempio in tal senso, una primogenitura avvenuta
proprio negli anni del suo magistero nella città ovidiana.
Sebbene molti elementi ci fanno collocare il musicista nella schiera dei contrappuntisti italiani di fine
Cinquecento, in questo breve lavoro egli dà prova di come fosse capace di coniugare il nuovo con la tradizione. Il ricorso, ad esempio, a cadenze nette poste a fine frase, la prevalenza della scrittura omoritmia su quella contrappuntistica, caratterizzata dall’uso frequente di figurazioni ritmiche stereotipate, come pure l’andamento ricorrente della declamazione sillabica del testo, sono tratti caratteristici di un orientamento stilistico dal registro espressivo nuovo, finalizzato ad un’appropriata resa musicale del testo poetico. Che l’animo del Capece fosse aperto alle nuove tendenze musicali che il Seicento aveva portato nella prassi musicale sta a testimoniarcelo un altro suo importante lavoro editoriale, il secondo libro dei madrigali e arie, una raccolta di brani a una, due e tre voci e continuo pubblicato nel 1625, negli anni del suo magistero a Tivoli.
Note:
- I Partito, nel I d’azzurro al drago alato d’oro, reciso, al capo d’oro caricato dall’aquila di nero al volo spiegato [Borghese]; nel II d’argento a tre bande di rosso, al capo d’argento caricato dalla rosa di rosso e sostenuto dalla trangla dello stesso, caricato dall’anguilla di nero serpeggiante in fascia [Maria Camilla Orsini].
- Claudio Annibali, La musica e il mondo. Mecenatismo committenza musicale in Italia tra Quattrocento e Seicento, il Mulino, Bologna
1993. - Erotilla/di/Giulio Strozzi/per le nozze/De gli Eccell.mi Principi/D. Marcantonio Borghese/et/D.Camilla Orsina