LETTURE DI FERRAGOSTO – GLI OCCHI DELLA PRINCIPESSA DACICA SUL POEMA OVIDIANO E SUL LEGATUS DI TRAIANO

201

TORNA IL SULMONESE IN UN ROMANZO DI SANTIAGO POSTEGUILLO CHE NON SFIGUREREBBE IN UN CONVEGNO NEI 2010 ANNI DOPO LA MORTE

9 AGOSTO 2024 – Sono gli occhi di una bellissima principessa della Dacia ad avvolgere un grande soldato romano nella magìa poetica di Publio Ovidio Nasone. E’ Dochia, sorella del grande nemico di Roma, Decebalo, che parla a Longino di un poema scritto novant’anni prima dal Vate relegato sul Ponte Eusino. Ne va fiera, ma non si stupisce che Longino non lo conosca, perché quei versi, pieni di vigore sebbene considerati minori dal suo stesso autore, sono scritti nella sua lingua e, quindi, non hanno nulla che possa legare il lettore al mondo perduto della Roma imperiale. Longino è un soldato, sebbene della più alta gerarchia, amico personale di Traiano e i generali, all’epoca della massima espansione dell’Impero, pensavano di più a conquistare terre sconfinate. Meno che meno, poi, si interessavano alla lingua di popoli ai quali avrebbero imposto il loro latino.

Tutto, a parte i personaggi, è una… poetica invenzione nella lontana Sarmizegetusa, al centro della Dacia.

Ma tutto è verosimile, perché è Ovidio ad aver tramandato ai posteri il suo nuovo impegno letterario di scrivere nella lingua della terra che lo ospita. Ha imparato le parole e le forme del Ponto ed ha quasi dimenticato il latino. Dalla relegazione potrebbe annotare ancora che quello che pensa scorre fluente in versi. E’ certamente espressione del grande periodo augusteo se, pur nel lutto che lo macera nella terra ove neppure Medea trovò pace avendo a disposizione le sue arti magiche, riesce ad apprendere termini e costrutti di una lingua barbara; e a farne il costrutto di un suo poema, cominciando ab imis fundamentis. Al resto, ad imprimere i contenuti immortali della sua poesia, ci pensa la quintessenza della sua anima che lo seguirà ovunque e sarà in grado di affrontare i temi del mondo conosciuto e di quello che si estendeva oltre i confini dell’Impero. Oltre anche i confini delle terre conquistate da Traiano, gli ultimi prima della millenaria decadenza della Romanità.

Dochia parla a Longino del poema ovidiano che andrà perduto, come l’unica tragedia del Sulmonese, la Medea, che non ha valicato il tempo della classicità sebbene scritta nella lingua purissima di Mecenate.

Avvince il “legatus” di Traiano nella terra dei Daci; ma non è una Cleopatra. Nulla in lei si esprime in termini di potere, se non quegli occhi azzurri che, per quanto sublimi, non deviano Longino dalla strada del dovere. Sono personaggi immensi, protagonisti di un’epica che non è inferiore a quella cantata da Omero. Decebalo farà poi prigioniero, nella sua reggia, Longino rappresentante di Roma in Dacia per impedire che Traiano gli muova una seconda guerra, quella definitiva. Un gesto odioso, tipico di un barbaro, che per un barbaro avrebbe il potere di indurre Traiano a temporeggiare e, quindi, a consentire nuove alleanze dei Daci con Sarmati, Rossolani, Parti.

Ma non ha fatto i conti con l’onore dei Romani e altro non può vedere avanti a sé, nella sala delle cerimonie, che un ostaggio che si dà la morte pur di non restare ostaggio. Longino, con il gesto estremo della devotio, molto più comune di quanto si pensi nella Romanità, si sacrifica per Roma e regala a Traiano il segnale per invadere la Dacia. Episodio vero, quello del suicidio di Longino, in un romanzo storico che ammicca molto alle esigenze dell’immaginazione; che concede molto alla aspirazione del suo brillante autore, Santiago Posteguillo, spagnolo, di esaltare il primo spagnolo imperatore di Roma, anche con qualche sovrabbondante denigrazione della dinastia Flavia che lo aveva preceduto e del successore, pur adottato da Traiano, Adriano, in una insolita veste di cospiratore. La grandezza di queste 1.200 pagine di “Circo Maximo” sta nel non approfittare troppo nel romanzare e, quindi, nel riprendere molto dalla cospicua bibliografia (oltre ottanta riferimenti) per saldare l’invenzione con la Storia. Merito di Posteguillo è di aver studiato a fondo quei libri prima di affrontare il racconto, perché non tutti gli autori che si sono avvicinati ad Ovidio hanno approfondito questa sua virile scelta di celebrare la poesia dopo essere stato trasferito in un altro pianeta, come doveva considerarsi il Ponto Eusino, in una lingua ostica, tra gente barbara, nei colpi implacabili di un clima nemico anche nel gelo invernale e negli assalti dei barbari confinanti.

La costruzione romanzata di Posteguillo contribuisce anche nella libertà… poetica a dare la giusta dimensione di quello che Ovidio fu per il suo tempo e per quello successivo: il faro che trasmette la sua luce fino alle terre remote del Ponto e viene riflesso da quei confini nella Roma del massimo splendore, a coinvolgere un generale ispirato da una principessa dagli occhi azzurri che di un legatus certamente si innamora forse solo perché è romano e reca con sé i simboli di un Impero destinato a non tramontare e ad avverare la profezia di Ovidio della sua stessa sopravvivenza finchè sopravviverà l’essenza di Roma.

Questo tuffo nella esaltazione di Publio Ovidio Nasone ci induce a sottolineare che se davvero nelle prossime ore non sarà scelto un assessore alla cultura per schieramento politico e se la presunzione del sindaco di occuparsi anche di cultura ad interim dovesse cedere ad una designazione di persona che abbia letto Ovidio o intenda farlo visto che è assessore di Sulmona dove, per chi non lo sa, Ovidio nacque, si potrebbe tener presente che Santiago Posteguillo è vivo e non ha neppure troppi anni (ci tocca pensare tutto noi…). Visto che ha studiato tanto anche Ovidio e che lo propone in tutti i suoi romanzi storici, potrebbe essere protagonista di una giornata sulmonese del romanzo storico, certamente di livello più alto delle fregnacce proposte nel Bimillenario celebrato… anni dopo il bimillenario della morte e costate a Comune e Regione centinaia di migliaia di euro, talvolta solo per premiare i congiunti dei commissari di valutazione dei premi, come denunciarono i 5Stelle, poi passati a sostenere le ragioni del potere. Così, tanto per lavare l’onta del serto d’aglio sulla testa di Ovidio che “Fabbricacultura” e Fabio Spinosa Pingue hanno regalato in vista del Bimillenario. Sono stati fermati solo per l’iniziativa del “Vaschione” di rivolgersi al Tribunale, che non capì molto nella tematica dei beni comuni (destando la sorpresa del prof. Pietro Rescigno quando seppe della decisione); ma intanto non ci provarono più.

Certamente Posteguillo non si dispiacerà se nella città di Ovidio un giornale riporta il passo del suo “Circo Maximo” su Ovidio. E’ proprio il colloquio tra la principessa e il legatus romano:

Dochia sorrise. “Ordinerò che uno dei poeti di palazzo t’istruisca, se lo desideri”. Non era esattamente ciò che Longino avrebbe voluto, ma migliorare la conoscenza del dacico sembrava essere una buona mossa per continuare a impressionare Dochia… e una buona idea per servire Roma. E si sorprese che le due idee fossero sorte in quell’ordine e non il contrario.

“Ne sarei onorato, senza dubbio, se ciò è possibile” confermò.

“Lo sarà” disse lei. Di nuovo tornò a guardarlo con sfida, non in modo aggressivo, ma con gli occhi da amico, in questo caso amica, un’amica che si diverte a fare indovinelli. “E il legatus sa di chi è questo poema?”

Longino riguardò il testo. Non ne aveva la minima idea. “Non conosco nessun poeta dacico, mi dispiace ammetterlo, ma prometto che a partire da ora comincerò a informarmi”.

“Non è dacico colui che ha scritto questo poema” rispose lei con un largo sorriso di vittoria.

Longino non patì la sconfitta: se non essere capaci d’indovinare l’autore del poema la faceva sorridere in modo tanto incantevole, allora era un gioco in cui conveniva certamente perdere.

“E chi è l’autore?” chiese dunque.

“E’ un poeta romano, che sono sicura il legatus conosca”.

Longino corrugò la fronte, confuso, sorpreso, curioso. Quella principessa non solo era bella, ma si poteva avere con lei una conversazione intelligente, acuta ed interessante.

“Non conosco nessun poeta romano che scriva in lingua dacica. So di alcuni che scrivono in greco, ma non mi risulta che alcun romano abbia scritto in dacico”.

“Sì, invece, e lo conosci” insistette Dochia, divertita come non lo era da tempo “perché suppongo che Gneo Pompeo Longino conosca il poeta Ovidio, non è così?”

“Ovidio?” ripetè il legatus ancora più confuso di prima. Non era un gran lettore di poesia, ma tutto il mondo conosceva Ovidio, il grande poeta del divino Augusto, l’autore delle Metamorfosi o dei Tristia, e con il quale lo stesso Augusto aveva avuto un grosso screzio, la cui origine non era mai stata chiarita e che lo aveva condotto all’esilio. “Il poeta Ovidio” continuò Longino, dando voce ai suoi pensieri, “fu esiliato da Roma, certo, e credo di ricordare che l’esilio fu a Tomis, a nord della Mesia Inferiore, proprio al confine con … la Dacia”.

“E’ così” confermò Dochia. “Ovidio, un poeta romano che ebbe la modestia di imparare la nostra lingua. In realtà, imparò la variante geto-dacica, ma perfettamente comprensibile per noi di qui. E non solo apprese la lingua, ma vi scrisse anche dei poemi. Questo mi ha fatto pensare che non tutti i Romani ci disprezzano. Volevo sapere se il legatus è come Ovidio”.

“E che cosa ha concluso la giovane principessa della Dacia al riguardo?”

Lei tornò a sorridere: “Ho concluso che Longino probabilmente non è un grande poeta, ma assomiglia un poco a Ovidio per il suo desiderio di conoscere la Dacia. E questo mi fa piacere”.

“E’ stato un incontro felice, allora” concluse Longino.

“Infatti,” rispose lei “ma molto lungo. Devo tornare al palazzo reale, ma spero che il legatus acconsenta a farci visita se ci sarà l’occasione”

A chiusura del capitolo, Posteguillo riporta il “riferimento all’esilio di Ovidio nella città di Tomi, vicino alla Dacia” del poeta Stazio: “nec tristis in ipsis Naso Tomis”.

Piccola imprecisione sta nel riferimento all’”esilio” di Ovidio, che fu invece una relegazione. Non tanto perché consentì a Ovidio di conservare i suoi beni (nell’esilio venivano espropriati), quanto perché nel romanzo si fa riferimento ad un esilio vero a Tomi, ma di un ex senatore, Marco Prisco, corrotto fino al midollo e condannato proprio da Traiano quando svolse le funzioni di magistrato. Prisco, restando nell’ombra, si allea a Decebalo e fornisce notizie preziose per organizzare l’agguato a Traiano in un bosco e durante una battuta di caccia quando ancora Romani e Daci vivevano una pace… armata. Qualcosa di molto diverso dalla devozione ripetutamente proclamata dal Sulmonese nelle “Epistule” e nei “Tristia”. Va pure annotato che, secondo il mito fondante della letteratura romena, Dochia sarebbe stata la figlia (e non la sorella) di Decebalo, della quale si innamorò lo stesso Traiano e che, elemento ovidiano ancora più rilevante, subì la metamorfosi in pietra.

Please follow and like us: