LE BATTAGLIE DI D’ANNUNZIO PER LA TUTELA DEL PATRIMONIO ARTISTICO

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8 gennaio 2011 – Conferenza fertile quella di CasaPound, che si colloca tra gli eventi fatti per attivare percorsi intellettuali “non conformi”: per parlare senza sentire addosso il tanfo del “politicamente corretto”, che alla fine si traduce in noia profonda e in bolse ripetizioni.

La Dott.ssa Mariachiara Guerra ha illustrato il saggio “Il poeta e l’architetto. Gabriele d’Annunzio, Marcello Piacentini e la tutela della città storica italiana”, pubblicato sul n, 6 dei “Quaderni del Vittoriale”: paziente, ma anche originale ricerca tra i carteggi del Pescarese, i suoi numerosi articoli sulla “Tribuna” e tra i dati statistici, che ripercorrono come approccio iniziale il problema della trasformazione di Roma Capitale, l’avventura di una città dalle grandi (e disattese) prospettive di incremento demografico. Le lettere che l’autrice riporta sono quelle con Giorgio Del Vecchio, con lo stesso Marcello Piacentini, e di questi con Ugo Ojetti (finora inedita). Su tutto svetta la prosa dannunziana dei proclami: come quello sullo Statuto fiumano (Reggenza del Carnaro), nel quale il compito dell’architettura è assegnato in modo perentorio: “un popolo non può avere se non l’architettura che meritano la robustezza delle sue ossa e la nobiltà della sua fronte, si studia di incitare e di avviare imprenditori e costruttori a comprendere come le nuove materie – il ferro, il vetro, i cementi – non domandino se non di essere inalzate alla vita armoniosa nelle invenzioni della nuova architettura”. Ha portato il proprio contributo il prof. Giuseppe Papponetti, che su D’Annunzio ha curato rilevanti raccolte e commenti: ha sottolineato la componente ellenistica della maturazione del poeta pescarese e, sotto il profilo locale, i suoi rapporti con Antonio De Nino, con il quale si è incontrato più volte a Sulmona.

Non esistono più i monumenti di una volta.

Può sembrare la parodia alle frasi bislacche che riempiono le conversazioni delle sale d’attesa o delle aule di udienza e invece, almeno questa, è una verità che sgorga cristallina dalla sintesi di tutto quanto si è succeduto nella impari lotta tra le antichità e la modernità in fatto di arte.

Le battaglie di Gabriele d’Annunzio contro i barbarismi dei restauri arbitrari hanno segnato la vetta di un impegno intellettuale per la tutela delle “emergenze” del periodo romano. Da quelle battaglie hanno tratto origine mille altri impegni di solitari letterati e per l’autorevolezza di quegli scritti veementi il regime fascista non poteva ritenersi disimpegnato nella produzione normativa e negli impegni di spesa per i restauri. Si potrebbe anzi dire che tutta la stagione più florida della legislazione vincolistica (che è sfociata in una legge perfetta come quella 1089 del 1939, ripresa da numerosi altri Paesi e restata cardine fondamentale della tutela dei monumenti fino ai giorni nostri) sia stata una rincorsa del regime a soddisfare lo spirito vulcanico del poeta di Pescara, in fatto di estetica. Profondo disprezzo (e in molte circostanze autentica paura) il regime nutriva per le imprese del “Comandante” (assolutamente incontrollabile), che il Duce del fascismo definì “dente marcio”, forse anche per l’inconciliabile incompatibilità di quella poesia con le esigenze di far marciare la nazione al passo dell’oca; ma impellente era la necessità di soddisfare uno spirito autenticamente italiano e un uomo di sconfinata cultura, tassativo era il bisogno di assecondare una coscienza critica che le democrazie di mezza Europa (quelle sì, marce) invidiavano all’Italia. Così, a conferma dell’aneddoto che avrebbe pronunciato Benito Mussolini (“questo dente marcio va estirpato; o ricoperto d’oro”), d’Annunzio fu blandito in ogni modo e davvero si può dire per i suoi ultimi anni che quanto diceva diventava volere stesso dell’Italia, sotto forma di leggi e di finanziamenti per le sue imprese di esteta e non più di soldato.

Ma le battaglie sul “Fanfulla” o su altre riviste avevano il sapore delle rivendicazioni romantiche: le ruspe della modernità demolivano interi quartieri. E facevano di peggio nelle aree sacre della romanità, fino all’attraversamento dei Fori Imperiali e fino agli “sventramenti Piacentini”, sui quali ancora il giudizio è sospeso per i loro pregnanti contenuti di risanamento delle città e di riedificazione dell’arte, ma anche per la definitiva soppressione del piccolo e dell’infinitamente armonioso.

E già da allora… non esistevano più i monumenti di una volta, pur con tutto il corredo di articoli che il d’Annunzio giornalista andava scrivendo dal secolo precedente (la frase “L’arte è memoria che non può difendersi” è ripresa da uno dei suoi primi interventi): ma all’”imaginifico” era consentito tutto, anche per i modi con i quali lo diceva. Era consentita anche una alleanza (di spirito, certo, perchè di speculazioni lottizzanti non poteva di certo parlarsi per il Vate, puro sotto questo profilo, e per l’architetto del regime) con Piacentini, che lo adorava e che probabilmente sarà stato guidato nel non ripetere in fatto di edilizia il Sacco di Roma, rinviato almeno agli anni Sessanta.

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